Lettori fissi

RETELEGALE FIRENZE

martedì 30 novembre 2010
Se lo Stato vuol fare il “privato datore di lavoro” dovrebbe anche poterselo permettere. Per precarizzare ed irregimentare ancora di più i pubblici dipendenti, passando da una fase di “privatizzazione consensuale contrattata” ad una di “privatizzazione verticistica manageriale”, occorre sia far piazza pulita dei contratti vigenti ma anche sostituirli con altri (prima di arrivare ad eliminarli del tutto, ma con calma...). Però questo passaggio è molto delicato perchè espone il datore di lavoro pubblico (come ogni datore di lavoro privato sa bene) a rivendicazioni di varia natura.
Vediamo la situazione venutasi a creare a seguito della riforma del pubblico impiego al tempo della crisi.
Il d.lgs. n. 150/ 2009, meglio noto come decreto “Brunetta”, ha innovato profondamente il sistema delle fonti del diritto nel pubblico impiego operando un'inversione a 360° rispetto all'impostazione originaria che vedeva nel sistema della contrattazione un pilastro essenziale del processo di privatizzazione.
In particolare, proprio a proposito della contrattazione collettiva e delle materie ad essa demandate, di cui si occupa il capo IV agli artt. 53 ss., si stabilisce l'espulsione dall'ambito pattizio delle seguenti:
l'organizzazione degli uffici;
quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell'art. 9 T.U.P.I. (informazione su organizzazione e gestione);
quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17 T.U.P.I. (l'esercizio dei poteri del privato datore di lavoro);
la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali;
quelle di cui all'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (controversie di lavoro).
Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio (la c.d. performance), della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione collettiva e' consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge.
L'art. 40 comma 3 quinquies del T.U.P.I. (introdotto dal decreto Brunetta) dispone poi che “Le pubbliche amministrazioni non possono in ogni caso sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con i vincoli e con i limiti risultanti dai contratti collettivi nazionali o che disciplinano materie non espressamente delegate a tale livello negoziale ovvero che comportano oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. Nei casi di violazione dei vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge, le clausole sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile. In caso di accertato superamento di vincoli finanziari da parte delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, del Dipartimento della funzione pubblica o del Ministero dell'economia e delle finanze e' fatto altresì obbligo di recupero nell'ambito della sessione negoziale successiva. Le disposizioni del presente comma trovano applicazione a decorrere dai contratti sottoscritti successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”.
Il decreto Brunetta contiene poi una norma di chiusura e adeguamento, l' art. 65, il quale stabilisce che “ 1. Entro il 31 dicembre 2010, le parti adeguano i contratti collettivi integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto alle disposizioni riguardanti la definizione degli ambiti riservati, rispettivamente, alla contrattazione collettiva e alla legge, nonche' a quanto previsto dalle disposizioni del Titolo III del presente decreto.
2. In caso di mancato adeguamento ai sensi del comma 1, i contratti collettivi integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto cessano la loro efficacia dal 1° gennaio 2011 e non sono ulteriormente applicabili”.
Stando così le cose da taluni si è sostenuto che i dirigenti degli uffici sarebbero già da subito autorizzati (anzi, obbligati) a procedere in via unilaterale (senza contrattazione) alla riorganizzazione e alla gestione del lavoro dando piena applicazione ai nuovi principi stabiliti dalla riforma e sintetizzati all'art.1, comma 2 così:”Le disposizioni del presente decreto assicurano una migliore organizzazione del lavoro, il rispetto degli ambiti riservati rispettivamente alla legge e alla contrattazione collettiva, elevati standard qualitativi ed economici delle funzioni e dei servizi, l'incentivazione della qualità della prestazione lavorativa, la selettività e la concorsualità nelle progressioni di carriera, il riconoscimento di meriti e demeriti, la selettività e la valorizzazione delle capacità e dei risultati ai fini degli incarichi dirigenziali, il rafforzamento dell'autonomia, dei poteri e della responsabilità della dirigenza, l'incremento dell'efficienza del lavoro pubblico ed il contrasto alla scarsa produttività e all'assenteismo, nonche' la trasparenza dell'operato delle amministrazioni pubbliche anche a garanzia della legalità”.
Per quanto riguarda lo specifico ambito della scuola occorre richiamare anche l'art. 74 che al comma 5 demanda ad un successivo D.P.C.M. la determinazione dei limiti e delle modalità di applicazione delle disposizioni di cui ai titoli II e III per il personale docente della scuola.
Il MIUR ha poi a sua volta sollevato il problema dell'applicazione pratica all'organizzazione e al personale scolastico delle norme del decreto Brunetta, formulando apposito quesito al dipartimento della Funzione Pubblica e stabilendo che le procedure di utilizzo del personale si svolgano nell'ambito del quadro normativo e contrattuale vigente alfine di assicurare il corretto avvio dell'anno scolastico (v. nota prot. n° 8578 del 23.9.2010).
A tale situazione d'incertezza, fonte di contrasti fra dirigenti e sindacati, ha dato ulteriore impulso un' interpretazione quanto meno affrettata e parziale del decreto Brunetta fornita dal dipartimento della Funzione Pubblica (v. circolare n°7 del 13.5.2010) in cui si sostiene che “in ogni caso, le norme che dispongono un termine finale per l’adeguamento (l'art. 65 n.d.r.) non valgono ovviamente a sanare le eventuali illegittimità contenute nei contratti integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009 e maturate sulla base dei principi previgenti, ad esempio con riferimento all’erogazione della retribuzione di produttività in modo non selettivo o indifferenziato o sulla base di automatismi ovvero in relazione alla regolazione con il contratto integrativo di materie non espressamente devolute dal CCNL o, a maggior ragione, disciplinanti materie escluse dalla contrattazione collettiva o, ancora, alla violazione del vincolo di bilancio e delle regole di finanziamento dei fondi di amministrazione.”
Tale orientamento (espresso direttamente...dal Ministro Brunetta!) si basa sulla mera data di entrata in vigore del decreto, ossia il 15.11.09: i contratti stipulati prima di tale data resterebbero applicabili mentre quelli stipulati dopo lo sarebbero solo per le parti non riservate alla legge ordinaria, fermo restando che tutti i contratti devono essere adeguati entro il 31.12.10 pena la perdita di qualunque validità ed efficacia dal giorno successivo.
La ricostruzione appare poco sensata sia sul piano logico che giuridico. Anche distinguere fra contratti stipulati prima (che rimangono operativi in toto) e dopo l'entrata in vigore del decreto (inapplicabili per le parti ora riservate alla legge) non risulta corretto.
Ma soprattutto è il decreto stesso che pone un limite ben preciso alle parti contraenti per procedere all'adeguamento di tutti i contratti ancora vigenti, senza distinzione alcuna. L'art. 65 è assolutamente chiaro ed incontestabile sul punto. Tale norma porta quindi ad escludere qualunque ipotesi di retroattività del decreto Brunetta o di perdita di efficacia automatica delle parti relative a materie non più oggetto di contrattazione.
Ciò posto sarebbe quindi necessario che nelle singole amministrazioni entro fine 2010 venissero intraprese, ad iniziativa “della parte più diligente”, le trattative per giungere all'adeguamento dei contratti in corso e la parte più diligente dovrebbe essere ovviamente quella sindacale dal momento che l'inerzia avrebbe per l'amministrazione il gradito effetto di far scadere il termine per l'adeguamento, lasciando quindi mano libera all' Amministrazione, ora divenuta “privato datore di lavoro”, di procedere come meglio crede. Poiché quindi la norma impone un obbligo di attivazione, un facere, a carico delle parti contraenti, risulta indispensabile mettere in mora la parte inadempiente la quale, perseverando nell'inerzia o peggio nell'opposizione a trattare o ancora procedendo in modo unilaterale, certamente si renderebbe responsabile di condotta antisindacale.
Occorre però a questo punto tener conto dell'art. 9, comma 17, della c.d. “manovrina estiva” (L. n. 122/ 2010) che ha previsto il blocco triennale dei contratti. La norma infatti prevede che “ 17. Non si dà luogo, senza possibilità di recupero, alle procedure contrattuali e negoziali relative al triennio 2010-2012 del personale di cui all'articolo 2, comma 2 e articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni. È fatta salva l'erogazione dell'indennità di vacanza contrattuale nelle misure previste a decorrere dall'anno 2010 in applicazione dell'articolo 2, comma 35, della legge 22 dicembre 2008, n. 203”. In queste condizioni è quindi impossibile qualunque rinnovo o adeguamento e il procedimento delineato dal decreto Brunetta diviene di fatto inapplicabile.
Da ciò la necessità di capire come regolarsi dopo l'1.1.2011 ossia da quando i contratti integrativi vigenti non adeguati dovrebbero perdere efficacia.
La norma parla di “mancato adeguamento ai sensi del comma 1” ossia entro il 31.12.10 ad iniziativa di parte. Poiché invece il mancato adeguamento è ora determinato da una disposizione di legge emanata successivamente, deve ritenersi che anche tali contratti rimangano del tutto operativi (quando meno in base al principio dell'ultrattività degli effetti del contratto). In concreto il blocco triennale della contrattazione cristallizza la situazione di fatto esistente al 30.7.10 e fa sopravvivere quanto meno sino al 2012 tutti i contratti esistenti nell'attuale formulazione, anche con riferimento alle materie riservate dal decreto Brunetta alla legge. In concreto, per ragioni di risparmio di spesa lo Stato “privato datore di lavoro” deve ancora pazientare un po'.
Alessio Ariotto, Retelegale.net
Come anticipato nel precedente intervento, il doppio termine di decanza (60 giorni decorrenti dalla comunicazione scritta del licenziamento o dalla comunicazione dei motivi e successivo temine di 270 giorni, entro il quale deve avvenire il deposito del ricorso in Tribunale) concerne tutti i casi di licenziamenti invalidi.
Al riguardo si è già chiarito, che per licenziamenti invalidi devono, in conformità alla lettera della norma, intendersi:
1- i licenziamenti annullabili per carenza di giusta causa o di giustificato motivo;
2- i licenziamenti nulli ovvero quelli discriminatori, quelli intimati a causa di matrimonio e quelli intimati alla lavoratrice durante il periodo di gestazione.
Si è escluso, invece, che il predetto doppio termine decadenziale concerna, anche, il licenziamento orale.
La predetta opzione interpretativa, che si ritiene coerente con la lettera della norma, deve essere mantenuta presente e ferma ai fini della corretta esegesi dell'articolo 32, III° comma, lettera a) e b) per le ragioni che vedremo da qui a breve.
L'articolo 32, terzo comma, enuncia:
"Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604, come modificato dal presente articolo, si applicano inoltre:
a) ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto
b) al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui all'articolo 409, numero 3), c.p.c.."
Ora, leggendo rapidamente l'articolo 32, lettera a), si potrebbe ritenere che il doppio termine decadenziale (60+270 giorni) trovi applicazione anche ai licenziamenti (ovviamente orali) intervenuti in un rapporto di lavoro nero (ovvero rapporti nei quali, a causa della mancata formalizzazione, si chiede sempre l'emissione di pronuncia di accertamento in punto di qualificazione del rapporto).
In realtà, ad opinione di chi scrive, tale possibile lettura appare errata.
Invero, se si ritenesse che la lettera a), dell'articolo 32, dispone l'applicazione del doppio termine di decadenza anche ai licenziamenti orali, intervenuti a cessazione di un rapporto di lavoro nero, ne risulterebbe l'irrazionalità dell'intero sistema normativo nonchè un insanabile contrasto con i principi già espressi dalla Corte Costituzionale.
Pertanto, utilizzando le noti tecniche interpretative deve ritenersi:
1- che il doppio termine di decadenza investe esclusivamente i licenziamenti invalidi ed intimati in forma scritta;
2- che l'articolo 32, terzo comma, lettera a), si riferisce ai casi di recessi intimati in forma scritta in rapporti di lavoro comunque formalizzati che presuppongono la risoluzione di questioni attinenti la riconducibilità della modalità a progetto nell'area della subordinazione, con la conseguenza che il lavoratore o la lavoratrice dovrà, (stante la locuzione presente nella norma "ai livenziamenti che ...") al termine di ogni singolo contratto di lavoro a progetto e nel quale vi è il recesso in forma scritta, provvedere sia, all'impugnazione entro 60 giorni che, al deposito del ricorso nei successivi 270;
3- che l'articolo 32, terzo comma, lettera b) si riferisce, diversamente dalla fattispecie di cui al punto a), al solo caso di recesso in rapporto di collaborazione, anche nella modalità a progetto, nel quale non viene in rilievo alcuna questione sulla qualificazione del rapprto.

Ciò chiarito, ad opinione di chi scrive, appare opportuno proseguire nel richiamo dell'articolo 32, III° comma.
Dunque tale disposizione prosegue enunciando:
"Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre:
c) al trasferimento ai sensi dell'articolo 2103 c.c., con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento;
d) alla azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del D.lgs 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo."
Inoltre, proseguendo nel richiamo del testo normativo, il successivo quarto comma dispone:
"Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo si apllicano anche:
a) ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del D.lgs. 06 settembre 2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge con decorrenza dalla scadenza del termine;
b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al D.lgs 06 settembre 2001, n. 368 e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge;
c) alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell'articolo 2112 c.c. con termine decorrente dalla data di trasferimento;
d) in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dall'articolo 27 del D.lgs 10 settembre 2003 n. 276 si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto".

Alla luce di tali disposizioni, chi scrive potrebbe anche ritenere costituzionalmente legittimo il termine di decadenza apposto ai licenziamenti invalidi, avendo la Corte Costituzionale già affermato la legittimità del termine di decadenza previsto per i soli casi di licenziamento, stante l'esistenza di un provvedimento espulsivo e il conseguente interesse della parte lavoratrice alla celere definizione della questione attinente l'affermata illegittimità dell'atto di licenziamento.
Ma negli altri casi?
L'articolo 32, terzo e quarto comma, (nella parte in cui prevede il doppio termine decadenziale in ipotesi di rapporti a progetto, trasferimernti individuali, trasferimento di azienda o del suo ramo, nullità del termine e somministrazione irregolare) a bene vedere si muove in una duplice direzione.
In primo luogo, incrementare la difficoltà dell'esercizio dell'azione, a tutela dei propri diritti, per la parte lavoratrice;
In secondo luogo conferire, per la parte datrice, una possibile sanatoria, derivante dal mancato rispetto dei termini decadenziali, pur in presenza di atti invalidi.
A fronte di ciò, la costituzionalità della normativa appare, ad opinione di chi scrive, quanto meno dubbia.
Invero:
Dubbia, in punto di contratti a termine, appare la tenuta della predetta normativa alla luce di quella comunitaria e del principio sancito dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza 314-2009.
Dubbia, in punto di trasferimento individuale o di azienda o di un suo ramo, appare la tenuta della normativa, lì ove prevede la decorrenza del termine in costanza di rapporto non assistito da stabilità.
Dubbia appare nel suo complesso la tenuta dell'intera normativa lì ove prevede, solo per i lavoratori, termini di decadenza non previsti, a conoscenza di chi scrive, per nessuna altra ipotesi di impugnazione di contratti invalidi.
Dubbia, infine, appare la tenuta dell'articolo 32, quarto comma, lettera d) stante la mancata individuazione del termine dal quale inizia a decorrere la decadenza.

avv. Vincenzo Caponera, Rete legale Roma
Prime osservazioni sull’articolo 32, I° e II° comma
Art. 32.
(Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato)
1. Il primo e il secondo comma dell'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sono sostituiti dai seguenti:
«Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso.
Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».”
2. Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento.”
* ° *
L’articolo 32, novellando l’articolo 6 della legge 604-1966, prevede, a differenza della previgente disposizione, un duplice termine decadenziale incidente sulla intera area dei licenziamenti invalidi.
Alla luce di tale previsione, si pone, immediatamente e preliminarmente, per l’interprete, il problema di delimitare l’area dei licenziamenti invalidi, in quanto, solo attraverso tale preventiva delimitazione, è possibile individuare i casi per i quali sussiste, a pena di decadenza, l’onere di impugnazione e di esercizio dell’azione nei termini normativamente fissati.
Di certo, ad opinione di scrive, l’onere di impugnazione non è operante nel caso di licenziamento oralmente intimato, militando, a sostegno di tale lettura, due distinti argomenti:
1- il licenziamento oralmente intimato è, come è noto, ascrivibile al genus dell’inefficacia, essendo esso improduttivo di effetti giuridici. Il termine inefficacia, che originariamente compariva, in abbinamento alla categoria dell’invalidità, nell’originaria formulazione della norma, non appare nel testo di legge, qui in commento.
2- Il primo comma dell’articolo 32 si riferisce espressamente ai licenziamenti comunicati in forma scritta, con conseguente inapplicabilità della norma e, indi, del doppio termine decadenziale, a tutti i casi in cui il licenziamento sia stato intimato verbalmente.
Risolto, positivamente, tale aspetto, resta irrisolto il problema dell’esatta individuazione dell’area dei licenziamenti invalidi.
A mio modo di vedere l’area dell’invalidità comprende non solo, i casi di licenziamento intimati per giusta causa o giustificato motivo ma anche, la categoria dei licenziamenti nulli, essendo l’area della nullità ricompresa in quella dell’invalidità.
Pertanto, con la previsione qui in commento dovranno essere impugnati, entro i 60 giorni (e poi dovrà essere depositato il ricorso, entro 270 giorni, a pena di inefficacia dell’impugnazione stessa) tutti i licenziamenti nulli, tra i quali figurano quelli intimati per motivi discriminatori, per motivi di matrimonio ovvero quelli intimati alla lavoratrice in stato di gestazione.
Per tali categoria di licenziamenti, ovvero, per la categoria dei licenziamenti nulli e per quelli intimati per giusta causa e per giustificato motivo, dovrà essere prestata, da parte lavoratrice, la massima attenzione, in quanto, a decorrere dal 24 novembre 2010, entrerà in vigore il duplice termine decadenziale di 60 e 270 giorni.
Diversamente, al pari dei licenziamenti orali, non appare soggetta alla nuova disposizione la fattispecie del licenziamento per superamento del periodo di comporto, secco o per sommatoria (ovvero superamento del termine, previsto nei diversi c.c.n.l., di legittima assenza dal posto di lavoro a causa di malattia), non essendo esso qualificabile in termini di giustificato motivo oggettivo.
avv. Vincenzo Caponera Retelegale Roma
giovedì 25 novembre 2010
Tribunale di Roma, sentenza 11210-010
“Al riguardo, premesso che è pacifico tra le parti che il rapporto di lavoro è assistito da stabilità reale, con conseguente collocazione del dies a quo di decorrenza del termine in costanza di rapporto di lavoro per i crediti che maturano con detta collocazione temporale, si osserva infatti che … per l’indennità sostitutiva delle ferie non godute non si è compiuta alcuna prescrizione –sia che il termine si voglia considerare di durata quinquennale, ritenendo il credito in questione di natura contrattuale, sia che lo si voglia considerare di natura decennale, ponendosene invece in rilievo la natura risarcitoria-, posto che il diritto alla monetizzazione delle ferie sorge solo all’atto della risoluzione del rapporto di lavoro …”.
* ° *
Corretta appare, ad opinione di chi scrive, la pronuncia resa dal Tribunale Ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, per le ragioni che da qui a breve verranno sviluppate.
L’articolo 10, dell’impianto normativo 66-2003, attutivo della direttiva comunitaria 93-104 e 2000-34, prevede, al primo e al secondo comma, che: “tale periodo va goduto per almeno due settimane consecutive in caso di richiesta del lavoratore nel corso dell’anno di maturazione e per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi all’anno di maturazione. Il predetto periodo minimo di 4 settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro”.
Inoltre, la Corte di Giustizia, anche recentemente[1][2], ha affermato che “nel momento in cui cessa il rapporto di lavoro non è più possibile l’effettiva fruizione delle ferie annuali retribuite. Per evitare che, a causa di detta impossibilità, il lavoratore non riesca in alcun modo a beneficiare di tale diritto, neppure in forma pecuniaria, l’art. 7, n. 2, della direttiva 2003-88 riconosce al lavoratore il diritto ad una indennità finanziaria.
Applicando tali principi ai rapporti lavorativi di lunga durata e caratterizzati da stabilità reale, è possibile risolvere la problematica afferente l’individuazione della sorte delle ferie maturate e non godute nel corso dei 18 mesi successivi all’anno di maturazione.
Problematica che non appare irrilevante anche a causa, in primo luogo, del sorgere del diritto all’indennità sostitutiva solo al momento della cessazione del rapporto e, in secondo luogo, del mancato riconoscimento, alla parte lavoratrice, del diritto-potere di auto-assegnarsi le ferie maturate e non godute.
Pertanto, tentando di fornire una soluzione interpretativa alla problematica in oggetto, si ritiene che se il diritto all’indennità sostitutiva, per espressa previsione normativa, sorge solo al momento della risoluzione del rapporto lavorativo, la prescrizione, qualsivoglia sia la natura del diritto alla predetta indennità, non potrà che iniziare a decorrere dal momento della cessazione del rapporto lavorativo, essendo quest’ultimo coincidente con il momento in cui il diritto può essere fatto valere. Tale soluzione esegetica, a cui la pronuncia in commento aderisce, appare ad opinione di chi scrive, sincrona con il dettato normativo che impone ed ancora, rispettivamente, la fruizione delle ferie maturate al termine prescritto e il sorgere del diritto all’indennità sostitutiva al momento della risoluzione del rapporto lavorativo.
avv. Vincenzo Caponera Retelegale Roma


[1] Corte di Giustizia 20 gennaio 2009, cause riunite C-350/06 e C-520/06
[2] La Corte di Cass. a sez. unite, 24712-2008, aveva già affermato, su fattispecie precedente al D.lgs 66-2003, che: “le ferie non sono monetizzabili nel corso del rapporto di lavoro, stante la irrinunciabilità del diritto alla loro effettiva fruizione, onde il diritto alla indennità sostitutiva non può che sorgere alla fine del rapporto
lunedì 22 novembre 2010
Quello che fino a ieri abbiamo chiamato provvisoriamente “Collegato Lavoro” oggi ha un suo nome definitivo ed un numero progressivo perché da progetto si è trasformato in legge: La legge 183/10 che sarà pubblicata sul supplemento ordinario 243 alla «Gazzetta Ufficiale» 262 di oggi 9 novembre 2010 e che, conseguentemente, dovrebbe entrare in vigore dal 24 novembre prossimo.

Molti di voi ricorderanno che questa legge ha avuto una sua prima vita a marzo di quest'anno quando al termine dell'iter parlamentare è stata inviata al Presidente della Repubblica per la firma. Napolitano, tuttavia, nell'esercizio dei suoi poteri, ha restituito il testo alle Camere con alcune annotazioni ritenendo una parte dello stesso disarmonico con i principi costituzionali. In particolare Giorgio Napolitano ha osservato come le norme in tema di Arbitrato escludessero il diritto costituzionalmente garantito per ogni cittadino di rivolgersi alla magistratura ordinaria per la tutela dei diritti.

A quel tempo, come Giuristi Democratici e come Retelegale.net abbiamo dato vita a numerose iniziative di sensibilizzazione e abbiamo registrato il rifiuto del Capo dello Stato come una vittoria, seppur temporanea.

A seguito di tale reimmissione del testo nel percorso legislativo, le Camere hanno introdotto significative modifiche a quella parte che il Presidente della Repubblica aveva chiaramente bollato come in odore di anticostituzionalità. Il resto della norma è rimasto praticamente identico.

Tuttavia, come avevamo già anticipato negli interventi pubblicati durante il dibattito parlamentare relativo alla prima stesura del Collegato Lavoro, le catastrofi che questa legge introduce sono due e non una. La prima catastrofe è l'introduzione dell'Arbitrato come metodo di risoluzione delle controversie in tema di diritto del lavoro e la seconda catastrofe è la riforma dei termini di decadenza per l'azione conseguente all'estinzione dei rapporti di lavoro.

Diciamo subito che la prima catastrofe è scongiurata mentre la seconda no.

Vediamo nel dettaglio che cosa è cambiato tra la prima e la seconda stesura della norma.
In tema di arbitrato:
Nella prima stesura si modificava l'art. 410 del Codice di Procedura Civile eliminando l'obbligatorietà del Tentativo di Conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro rendendolo facoltativo. Si introduceva, poi, la possibilità per il lavoratore ed il datore di lavoro di ricorrere, anziché al Giudice del Lavoro e quindi al Tribunale, ad un collegio arbitrale di misteriosa composizione, cui affidare il compito di decidere, anche secondo equità e quindi non secondo la legge, tutti le tipologie di controversia che fossero insorte tra le parti. Si introduceva, poi, subdolamente una “possibilità” per le parti di prevedere direttamente nel contratto di lavoro e quindi al momento dell'assunzione, l'obbligo di rivolgersi agli Arbitri e non al Tribunale in caso di controversie. Questa possibilità, in realtà, si sarebbe risolta in una favorevole opportunità per i datori di lavoro e in un obbligo per i lavoratori i quali, costretti dalla necessità di un lavoro e di una retribuzione, niente avrebbero potuto opporre rinunciando per sempre alle tutele previste dalla legge e alle garanzie di un processo davanti al Giudice del Lavoro.
Nel testo definitivo della 183/10, e precisamente nell'art. 31, per la verità, scompare questa sciagura e l'arbitrato si configura come una possibilità in tutto e per tutto e mai come un obbligo.
Resta la facoltatività del tentativo di conciliazione che, tuttavia, da semplice tavolo di funzionari che tentano di avvicinare le posizioni delle parti, si trasforma in un vero e proprio collegio con l'obbligo, al termine della discussione, di formulare una ipotesi transattiva il cui mancato accoglimento da parte di una delle parti dovrà essere valutato dal Giudice ai fini della decisione, ad esempio, in punto di attribuzione delle spese legali.
Ma, come visto, la novità positiva è che del tentativo di conciliazione possiamo molto volentieri fare a meno anche perché questo istituto, che fa perdere 60 giorni di tempo a chi agisce, in questi anni è servito principalmente ai datori di lavori per farsi degli sconti nell'ambito di controversie aventi ad oggetto il pagamento di retribuzioni dovute e non corrisposte. Il lavoratore si è spesso sentito proporre, in quella sede, una cifra di gran lunga inferiore rispetto a quanto effettivamente dovuto dal datore e si è trovato nelle condizioni di accettarla anche in considerazione della abnorme durata dei processi e dell'alea costituita per lo più dalla possibilità che, medio tempore, l'ex datore di lavoro fallisse o divenisse comunque insolvente vanificando l'azione giudiziaria.

Quanto alla possibilità di introdurre la clausola compromissoria, che altro non è se non l'accordo con il quale le parti deferiscono ad arbitri la controversia, direttamente nel contratto di lavoro, come si è detto, questa, nella stesura definitiva, scompare. Non solo: è vietata, così come è vietato stipulare il patto con il quale di sceglie di attribuire ad arbitri privati la competenza a decidere sulle controversie relative al rapporto di lavoro, prima che sia trascorso il periodo di prova per evitare comunque che il lavoratore si trovi in una condizione di soggezione e di impotenza di fornte alla richiesta del datore di lavoro. Non solo: il deferimento ad arbitri è sempre vietato per l'azione di impugnazione del licenziamento.
Come si vede ci troviamo in un quadro radicalmente diverso rispetto a quello che disegnava la prima versione della riforma scartata dal Capo dello Stato.
Adesso è compito nostro e di chiunque abbia a cuore la tutela dei diritti dei lavoratori divulgare il più possibile il suggerimento di rifiutarsi sempre e comunque di sottoscrivere accordi che limitino la giurisdizione del Giudice del Lavoro e la scagura è definitivamente scampata.

In tema di termini di decadenza per l'azione conseguente all'estinzione dei rapporti di lavoro.
E' l'art. 32 della 183/10 ad occuparsi di questo tema.  Non esiste alcuna differenza tra la prima e la seconda stesura della norma. Essendo la questione molto delicata procedo ad analizzare punto per punto facendo seguire ad ognuno una breve e schematica spiegazione.
Art. 32.
(Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato)
1. Il primo e il secondo comma dell'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sono sostituiti dai seguenti:
«Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso.
Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».”

Fin qui, verrebbe da dire, tutto bene, nel senso che oltre al termine di 60 giorni, che già esisteva, per impugnare anche stragiudizialmente (quindi con una raccomandata con ricevuta di ritorno e solo con quella) il licenziamento che si ritiene illegittimo, viene introdotto un secondo termine, di 270 giorni (circa nove mesi) per il deposito del ricorso presso il Tribunale. Non è un problema. Basta saperlo e francamente non credo siano molti i casi in cui il deposito avviene dopo un paio di mesi. Tant'è, questa è la nuova norma, basta starci attenti. Nessuno sconvolgimento. Naturalmente se si vuole coinvolgere la Direzione Provinciale del Lavoro con un preventivo esperimento del Tentativo di Conciliazione (sconsigliato), allora i termini si sospendono per poi ridecorrere dall'eventuale mancata conciliazione.

2. Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento.”

Ecco le prime note dolenti. Che significa questo inciso? Che bisogno c'è di inserirlo? Certamente vuol dire che questi termini si applicano al licenziamento per giusta causa, per giustificato motivo oggettivo e per giustificato motivo soggettivo invalidi, ma poi? A quali altri tipi invalidità di licenziamento? Ad esempio: sappiamo che il licenziamento, per legge, deve essere intimato in forma scritta per cui se viene intimato oralmente si parla di un tipo di recesso invalido. Fino a questo riforma non c'era alcun termine di decadenza perché i 60 gg. cominciavano a decorrere dalla data di ricezione della comunicazione per cui in assenza di questa non decorreva alcunché. Ma adesso? Non sarà che questa generica espressione comprende anche i licenziamenti intimati oralmente?Perché in quel caso sarebbe molto complicato provare il giorno in cui il recesso si è verificato per poi dimostrare che l'azione è stata esercitata entro i termini stabiliti dalla legge. Si pensi ad esempio ad un rapporto di lavoro totalmente o parzialmente irregolare e alla difficoltà di ottenere la collaborazione dei colleghi. Questo mi pare un problema di difficile soluzione e attenderemo che la Corte di Cassazione sia messa nelle condizioni di dare la corretta interpretazione alla norma sperando che questa vada nel senso di escludere l'applicabilità della stessa al caso del licenziamento intimato oralmente data la inesistenza giuridica di tale atto e non la sua semplice nullità.

3. Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre:
a) ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto;
b) al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui all'articolo 409, numero 3), del codice di procedura civile;
c) al trasferimento ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile, con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento;
d) all'azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo.”

Ecco il nucleo fondamentale e allo stesso tempo la parte più pericolosa della riforma.
Il termine di decadenza di 60 giorni per l'impugnazione e di 270 giorni per il deposito del ricorso non si applica più solo ai licenziamenti ma anche alle domande avente ad oggetto l'accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, e quindi alla conversione dei contratti precari (a termine a progetto, etc,) in contratti stabili e ai trasferimenti illegittimi. Si introduce, cioè, un termine ultimo oltre il quale si perde il diritto di agire per la tutela dei propri diritti in un ambito nel quale, come è noto, non si è immediatamente nelle condizioni di poter sapere se il rapporto di lavoro si stabilizzerà o meno. In molti casi, infatti, a seguito di una iniziale costituzione di un rapporto di lavoro parasubordinato (che quasi sempre simula un rapporto subordinato e quindi è convertibile) si viene assunti con contratto a termine (quasi certamente valido e non convertibile) con la promessa da parte del datore di lavoro di una futura stabilizzazione. Ma, e qui nasce il problema, se il termine del contratto spira dopo 60 giorni il lavoratore si trova nella difficile situazione di scegliere tra inviare la raccomandata in costanza di rapporto di lavoro, compromettendo la possibilità di vedere naturalmente stabilizzato il rapporto, o rinunciare all'azione confidando nella stabilizzazione che, come spesso avviene, potrebbe non concretizzarsi. Quello che è certo è che il precariato cambia pelle, si trasforma e, sotto alcuni profili, si istituzionalizza. La trasformazione del contratto precario nullo in contratto subordinato diventa un'azione con una dead-line, come direbbero gli aziendalisti, con un termine di decadenza esattamente come l'impugnazione di un licenziamento con una equiparazione che stabilisce la cronicità dell'uso improprio, o per meglio dire dell'abuso, dei contratti a progetto e di quelli a termine al punto da dover ricorrere ad un sistema di smaltimento dei ricorsi in nome della certezza dei diritti.

4. Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche:
a) ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine;
b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge;presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge;
c) alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento;
d) in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dall'articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.

Attenzione attenzione. E' necessario dare la massima diffusione a questa norma perché introduce un termine di decadenza preciso per tutti quei contratti a termine che si siano estinti prima dell'entrata in vigore della legge in esame. Il termine decorre dalla data di entrata in vigore della 183/10 e, quindi, dal 24 novembre 2010 e conseguentemente il termine ultimo per impugnare i contratti a termine, se non abbiamo fatto male i conti, è il 23 gennaio. Questa norma inciderà in maniera notevole sulle stabilizzazioni impedendo a moltissimi precari di esercitare i propri diritti anche perché la stampa e la maggior parte dei dibattiti sul contenuto di questa norma si sono concentrati sull'arbitrato senza evidenziare come in realtà la riforma peggiore fosse proprio questa.

5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.
6. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.
7. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell'articolo 421 del codice di procedura civile.”

Questi ultimi tre punti mettono un tetto al risarcimento del danno che il lavoratore può richiedere in caso di trasformazione del contratto a termine con l'aggravante di introdurre tale limite anche per le cause già in corso. Ancora sconti e sempre da una sola parte.

Al termine di questa disamina, che spero sia utile, vorrei svolgere una breve considerazione. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un attacco nei confronti dei diritti dei lavoratori. Non c'è dubbio. Ancora una volta si alleggeriscono le responsabilità di coloro che sfruttano il precariato per aumentare i profitti delle proprie aziende. In questi mesi, a proposito di questa riforma ho sentito molti parlare a sproposito di cancellazione dell'art. 18 e ho constatato la mancanza di una analisi approfondita sul tema che, purtroppo, oggi determina lo sdoganamento di un principio, come quello descritto dall'art. 32 sopra riportato, che peggiora senza dubbio la condizione dei lavoratori precari ma non sfiora neanche da lontano la condizione dei lavoratori c.d. garantiti né tanto meno l'applicabilità, a questi e solo a questi, dell'art. 18 St. Lav.
Ancora una volta, quindi, ci troviamo ad esaminare un testo di legge i cui mandanti sono gli imprenditori, gli industriali, i datori di lavoro. Mi chiedo, quando ci troveremo ad analizzare un testo di una riforma che proviene dalla parte dei lavoratori? Qual'è il progetto della sinistra per il diritto del lavoro? Quali sono le riforme che si ritengono urgenti e necessarie per ridare dignità al lavoro e quale il disegno complessivo all'interno del quale queste riforme possono dirsi credibili?
Credo che se non rispondiamo a questa seconda domanda non saremo in grado di rispondere alla prima. Ho la sensazione che la stagione della difesa debba finire per lasciar posto ad una stagione di proposte concrete, di inversione di tendenza reale, di contaminazione del dibattito con proposte di riforma a favore dei lavoratori, a favore delle retribuzioni e contro l'ulteriore utilizzo delle forme di lavoro precario. Altrimenti riforme come questa saranno solo piccoli assaggi, sperimentazioni di riforme più devastanti dal punto di vista sociale. Non può esistere un'Italia migliore senza un progetto complessivo in favore dei diritti dei lavoratori che, peraltro, sarebbe molto più armonico rispetto al dettato costituzionale dell'attuale assetto normativo e, per questo, sicuramente legittimo.

Marco Guercio, Retelegale Livorno,
Avvocato
sabato 20 novembre 2010
Introduzione

Farei prima di tutto una disamina di quelle che sono le disposizioni penali del testo unico sugli stupefacenti; questo per osservare i comportamenti a rischio dell'utenza e poi passare ai comportamenti con i quali si raffrontano gli educatori durante il loro lavoro. Quindi andremo a vedere una serie di disposizioni che sono quelle che possono rientrare all'interno del concetto di “zona grigia” di lavoro ovvero le condotte di agevolazione ed istigazione che sono previste sia nel testo unico sugli stupefacenti sia nella figura generale dell'istigazione a delinquere. Andremo poi ad osservare anche delle specifiche aggravanti che sono previste nel testo unico e che possono riguardare l'attività di specie. Infine andremo a vedere delle possibili soluzioni e degli strumenti che il testo unico mette a disposizione. Strumenti che, in verità, sono per ora ancora poco agiti tanto dalle amministrazioni centrali che da quelle locali. Strumenti che ad oggi permetterebbero già con la normativa esistente un primo nucleo di tutela per chi svolge professioni nell'ambito educativo.

Il cardine legislativo

La prima disposizione quella cardine nel testo unico sugli stupefacenti da punto di vista penale è l'art.731 dove si elencano tutta una serie di condotte in modo molto accurato e specifico ed un limite di pena molto alto, da sei a venti anni. Vi è poi l'ipotesi invece della lieve entità. In questo caso viene prevista una pena da uno a sei anni.
Sono tutte pene molto alte che autorizzano la possibilità di adozione di misure cautelari.
Vediamo come questo articolo prevede pene molto più alte di quelle previste per la rapina o per lo stupro, quindi vediamo che il terreno nel quale ci si muove sono disposizioni penali di un portata molto severa.
Oltre alle condotte di agevolazione ed istigazione il profilo di rischio per un educatore può essere dato nell'ipotesi concorsuale.
Riprendiamo l'esempio nel quale ci si trova in macchina con un utente che detiene sostanze stupefacente. Ebbene qua siamo proprio di fronte ad una possibile contestazione di un addebito concorsuale. Se quella persona detiene e tu ne sei a conoscenza potresti aver rafforzato il suo principio di condurre con sé sostanze anche al di sopra dei limiti tabellari.2.

Oltre alla disposizione principale prevista dal punto di vista penale segnaliamo l'art. 753 anche se a noi interessa poco in quanto relativo alle norme legate all'uso personale per il quale c'è un procedimento amministrativo e quindi i problemi sono minori.

Aggravanti

Vediamo alcune aggravanti. Le pene dell'art. 73 sono aumentate da un terzo alla metà quando le sostanze stupefacenti e psicotrope sono destinate a persone di età minore. Questo coinvolge anche il caso di specie dove si ha a che fare spesso con un'utenza minorenne. Altre aggravanti per chi ha indotto a commettere reato o a cooperare nella commissione delle stesso una persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti4. Ed ancora l'aggravante si ha se l'offerta o la cessione è effettuata in prossimità di scuole, comunità giovanili, ospedali, carceri, caserme, strutture per la cura e riabilitazione di tossicodipendenti. Quindi vediamo come si abbia a che fare non solo con una disposizione penale già significativa (da sei a vent'anni) ma con una possibilità di un ulteriore aggravio molto forte, da un terzo fino alla metà della pena.

Agevolazione ed istigazione

Andiamo a vedere quelle che sono le disposizioni che vengono previste nel testo unico sugli stupefacenti a proposito delle condotte di agevolazione o di istigazione e che vanno al di là della figura generale prevista alla voce “istigazione a delinquere” del codice penale. Oltre allo “storico” articolo 775 sull'abbandono delle siringhe, un articolo che recentemente è stato molto agito dalla magistratura e su cui si è fatto molto propaganda6 è l'art. 797 che a mio avviso interessa molto chi svolge la professione di educatore, operatore di prossimità, operatore di unità di strada. Citando l'articolo “chiunque adibisce o permette che sia adibito un locale pubblico o un circolo privato a luogo di convegno di persone che si danno all'uso di sostanze stupefacenti, è punito, solo per questo fatto da 3 a 10 anni” e, continuando a scorrere: “Chiunque avendo la disponibilità di un immobile, di un ambiente o di un veicolo cioè idoneo adibisce o consente che altri lo adibiscano a luogo di convegno di persone che si danno all'uso, è punito con le stesse pene.”
Andando al caso di specie se in un centro giovanile o simile più volte vengono segnalati episodi di consumo di stupefacenti in teoria si può prevedere la contestazione di questa fattispecie di reato.
Reato che per calarci nell'esperienza del territorio, ad oggi in Bologna è stata applicata ad alcuni posti pubblici che gestivano spazi e che sono stati chiusi con dei provvedimenti di sequestro preventivo proprio in forza al disposto dell'art. 79 in quanto all'interno di questi spazi si presumeva far uso di sostanze stupefacenti.
Andiamo a vedere altre ipotesi relative a queste condotte.
Art. 82 “Istigazione, proselitismo, induzione al reato di persona minore”8 “chiunque pubblicamente istiga all'uso illecito di sostanze, ovvero svolge anche in privato attività di proselitismo, ovvero induce una persona a tale uso, è punito con reclusione da uno a sei anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso da più persone nei confronti di persone di età minore, ovvero all'interno e in adiacenza di scuole, comunità giovanile e caserme. Vi sono poi aumenti di pena se il minore ha meno di 13 anni, vi è il divieto di propaganda pubblicitaria” ecc. ecc.

Libertà di cura e segreto professionale
Finora le figure di reato previste in categoria generale.
Vi sono poi casi specifici che chiamano in causa il principio della libertà di cura e del segreto professionale che viene previsto originariamente, in questo testo unico, per il personale sanitario e per il personale che fa capo ai servizi pubblici per le tossicodipendenze. Queste figure potrebbero costituire un primo nucleo in teoria estendibile anche per chi svolge la professione di educatore di prossimità.
Andiamo a vedere, a proposito, due articoli estremamente importanti riguardanti l'affidamento in prova e altri modi di esecuzione della detenzione laddove la legge Fini Giovanardi ha introdotto nel nostro ordinamento una mutazione rispetto al regime precedente in quanto mentre anteriormente vi era nell'ambito dell'attività terapeutica quasi un dovere di segreto professionale per chi vi era preposto, ora l'art. 899 e l'art. 9410 relativi all'affidamento in prova e alla sospensione dell'esecuzione della pena detentiva prevedono determinati obblighi di segnalazione. Andando nello specifico per l'art. 89 vediamo che il comma 5bis, prevede che il responsabile della struttura presso cui si svolge il programma terapeutico di recupero è tenuto a segnalare all'autorità giudiziaria le violazioni commesse dalla persona sottoposta a programma; qualora tali violazioni implichino un reato, l'autorità giudiziaria ne darà poi comunicazione all'autorità competente per la revoca del procedimento.
Perché si è inserito anche questo obbligo di denuncia?
Perché sia sull'affidamento in prova che sulla sospensione dell'esecuzione della pena detentiva questa legge ha ampliato di molto le possibilità di accedere a tali misure: ha ampliato il minimo di pena portandolo a sei anni rispetto al margine precedente che prevedeva, per esempio, per le droghe leggere, pene che andavano da 6 mesi a 4 anni o da uno a 6 anni. Inoltre questa legge ha previsto che per qualsiasi persona, per qualsiasi tipo di reato, al di fuori di reati specifici ben individuati dalla legge, se questi si dichiara alcoldipendente o tossicodipendente e intende seguire un programma di recupero, fino a sei anni di pena, può farlo presso una comunità terapeutica. Così facendo si va a confondere il terreno di custodia con quello di cura. In alcuni casi può essere strumentale il dichiararsi alcoldipendente o tossicodipendente per scontare, sotto i sei anni, una pena in strutture non detentive, però in questo modo, il legislatore, ha inserito questo obbligo di segnalazione che va a scapito dei percorsi più sinceri di cura e recupero.

Al di fuori di questi casi vige sempre la possibilità per chi è inserito in strutture come il Ser.t. o in strutture previste dall'art. 11611 (che andremo ad esaminare nello specifico) di avvalersi del segreto professionale nell'ambito dello svolgimento dell'attività. Questo è un aspetto importante perché estendendo questa possibilità del segreto professionale (di cui all'art. 200 del codice di procedura penale) abbiamo la possibilità di avere un'effettiva sincerità della cura nonché una tutela dell'operatore. Questa disposizione è prevista dal testo unico all'art.120 “terapia volontaria anonimata”: “chiunque fa uso di sostanze può chiedere al Ser.t., o ad una struttura privata autorizzata specificatamente per l'attività di diagnosi, l'anonimato”.
Vediamo in particolare il settimo comma dell'articolo: “gli operatori del Ser.T. e delle strutture private autorizzate, ai sensi dell'art.116 salvo l'obbligo di segnalare all'autorità competente le violazioni commesse dalla persona sottoposta a programma terapeutico alternativo a sanzione amministrativa o a esecuzione di pena detentiva non possono essere obbligate a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione della propria professione, né davanti ad autorità giudiziaria né davanti ad altra attività”. Agli stessi si applicano le disposizioni dell'art. 200 del codice di proceduta penale; si tratta dell'articolo che disciplina il segreto professionale per gli esercenti di professioni quali quella di avvocato e quella di medico e che dice testualmente che chi svolge queste professioni non è tenuto a divulgarle: “non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto in ragione del proprio ministero, ufficio e professione, salvo i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria, i ministri di confessioni religiose, gli avvocati, i medici, i farmacisti i chirurghi e ogni altro soggetto esercente una professione sanitaria.”. E' importante da questo punto di vista la dizione “ogni altro soggetto esercente una professione sanitaria” anche a livello dell'inquadramento della categoria degli operatori di prossimità, degli educatori. Questo in quanto avvocati o medici hanno una tutela in forza all'appartenenza ad un ordine professionale non previsto, insieme al codice di autoregolamentazione, per chi svolge la funzione di educatore. Faccio un esempio, se a me avvocato vengono richieste alcune informazioni rispetto ad un procedimento che ho in carico, se non mi avvalgo del segreto professionale commetto un illecito professionale che può portarmi fino alla radiazione; in questo caso vi è anche uno strumento interno ulteriore che rafforza la tutela del segreto.12
Quindi una prima chiave da poter sondare per l'estensione di garanzie a chi svolge la professione di operatore di prossimità sarebbe l'estensione del settimo comma dell'art. 120 anche a chi svolge la professione di operatore di prossimità attraverso un ampliamento della figura dell'operatore socio-sanitario oppure attraverso l'aggiunta di una specifica dizione nell'art. 120. Comunque senza necessità di un'innovazione normativa il testo unico mette a disposizione un articolo che fino ad oggi è stato poco utilizzato. Andando a vedere il titolo 10 del testo unico, esso prevede la possibilità di fare attività di prevenzione all'interno di istituti scolastici, attività ad oggi poco utilizzata nel nostro paese e che prevederebbe attività di informazione ed educazione, attività che per esempio ha come oggetto l'incentivazione di eventi culturali da svolgersi anche all'esterno della scuola nonché coordinamento con iniziative fatte dall'amministrazione pubblica con particolare riguardo alla prevenzione primaria tra i soggetti importanti nell'attività degli educatori di strada. Per eseguire questi strumenti educativi il testo unico prevede l'art. 105 che parla di iniziative di educazione e prevenzione supportati da corsi di formazione per gli insegnanti nonché la possibilità, come si vede al comma 5 di “organizzare corsi di formazione sull'educazione sanitaria, sui danni derivanti ai giovani dall'uso di sostanze stupefacenti nonché sul fenomeno criminoso nel suo insieme”.

Le attribuzioni regionali

Le attribuzioni regionali e provinciali prevedono una serie di competenze fra le quali la possibilità di avvalersi di strutture autorizzate pubbliche e private utili all'analisi delle condizioni cliniche, socio-sanitarie e psicologiche del tossicodipendente, a monitorare i rapporti con la famiglia e l'elaborazione, l'attuazione e la verifica del programma terapeutico, ma anche la progettazione e l'esecuzione di interventi di prevenzione.

La prevenzione

Ciò che è interessante nell'attività dell'educatore di prossimità è la possibilità di poter intervenire prima.
Come prevede dunque la legge la possibilità dell'esistenza di un qualcosa che non sia già un dopo, quando la persona sia già tossicodipendente, sia già in carico ad un programma terapeutico-riabilitativo, o sia colpita da una pena? L'art. 11413 e l'art.11514 danno questi strumenti, ma ad oggi non sono stati molto agiti dalle amministrazioni locali. All'art. 114 vediamo come il perseguimento degli obiettivi di prevenzione e recupero possono essere affidati ai comuni o alle competenti Ausl o alle strutture private di cui all'art.116, ma vi sono anche gli enti ausiliari e in queste possiamo intravedere anche le cooperative del privato sociale, ente a cui appartengono molte delle persone che svolgono il ruolo di educatori di strada. Infatti l'art.115 prevede che “i comuni, le comunità montane, i loro consorzi, i Ser.t., i centri previsti dall'art. 114 (appena visto) possono avvalersi della collaborazione di gruppi di volontaria o degli enti inseriti nell'art. 116, soggetti che svolgono queste attività con finalità di prevenzione del disagio psicosociale, assistenza, cura, riabilitazione, reinserimento del tossicodipendente, ovvero di associazione o enti di loro emanazione con finalità di educazione dei giovani, sviluppo socio-culturale della personalità, formazione professionale ed orientamento al lavoro. I responsabili di questi servizi possono autorizzare persone idonee a frequentare corsi utili all'esercizio dell'opera di prevenzione, recupero e reinserimento.” Laddove venisse utilizzato questo strumento da parte degli enti locali e venissero stipulate delle convenzioni, attraverso questi articoli si potrebbero estendere agli educatori di strada le garanzie previste per il personale medico ed il personale infermieristico. E' chiaro che a monte sarà necessaria l'individuazione di un progetto, la stipula di una convenzione in tal senso, e allora abbiamo la possibilità, anche per chi svolge questo lavoro, di avvalersi del segreto professionale e di poter avere una maggior tutela nell'ambito dell'intervento. E' chiaro che tutte queste disposizioni hanno un limite: se per esempio all'interno di una comunità, nell'ambito di un'ispezione, viene trovato un bilancino e 100 gr. di haschisc quello non è coperto da segreto professionale; c'è sempre un limite da valutare quando i fatti di reato sono così manifesti. Capiamoci, l'operatore non ha un diretto obbligo di denuncia, ma certamente il non operare può far prevedere delle ipotesi di carattere concorsuale. Cosa diversa l'episodio descritto prima, ovvero il vedere l'episodio rado di consumo e passaggio di uno spinello, ebbene riprendendolo un'altra volta ripetiamo che quello si, sarebbe coperto dalle tutele previste attraverso l'adozione degli strumenti appena illustrati.

Parlando di educatori di strada e unità di strada, sottolineiamo che è vero che il testo unico da questo punto di vista sconta il fatto che sia stato emanato nel 1990 e che i successivi interventi in materia non hanno innovato profondamente su questo terreno in un'epoca in cui gli interventi di riduzione del danno si sono fatti più frequenti nei protocolli sanitari, ma comunque vediamo che l'art. 120 prevede il diritto all'anonimato per chi si sottopone a programmi sanitari, ma prevede soprattutto che gli esercenti la professione socio-sanitaria che assistono persone dedite all'uso di sostanze stupefacenti possono avvalersi dell'ausilio del Ser.T. Ed in questo modo possono anche loro essere coperti dalle tutele a cui è soggetto il personale del Ser.T. Quindi possono usufruire anche dell'obbligo di non denuncia derivante dal segreto professionale.
Ritorniamo alla disposizione cardine dell'art.120 comma settimo la quale, qualora estesa anche a chi fa un'attività di prevenzione, può certamente permettere un assorbimento de gravoso compito assegnatogli. Anche l'art. 12215 prevede espressamente nella definizione del programma che “la stessa possa avvenire anche in collaborazione con i centri di cui all'art. 114 o avvalendosi delle cooperative di solidarietà sociale di cui all'art. 115 e da questo punto di vista stipulare iniziative rivolte ad un pieno inserimento sociale attraverso l'orientamento e la formazione professionale, attivita' di pubblica utilita' o di solidarieta' sociale. Nell'ambito dei programmi terapeutici che lo prevedono, possono adottare metodologie di disassuefazione, nonche' trattamenti psico-sociali e farmacologici adeguati. Il servizio per le tossicodipendenze controlla l'attuazione del programma da parte del tossicodipendente.” Attraverso questo disposto dell'art. 122 primo comma e l'adozione degli strumenti di cui agli articoli 114 e 115 del testo unico si potrebbe certamente prevedere una sorta di miglior inquadramento dell'operatore di prossimità al fine di poter permettergli un'estensione delle tutele che ad oggi sono previste per il personale sanitario nello svolgimento del loro delicato compito.
Andiamo a vedere un esempio pratico:
Io, operatore, porto in macchina un ragazzo contattato. Questo ragazzo ha con sé della sostanza stupefacente; certamente sarà difficile prevedere per un organo di polizia un mio addebito concorsuale anche perché io, anche come privato cittadino, non ho l'obbligo di perquisizione e denuncia e quindi potrei benissimo non essermi avveduto del fatto che questa persona porta con sé sostanza stupefacente. E' però vero che il problema può sorgere là dove si va nei luoghi di aggregazione giovanile dove certamente il consumo esiste e dove il proprio intervento può essere da alcuni letto come un evento che agevola l'intenzione del giovane di compiere determinati comportamenti. Penso in particolare alla cessione gratuita o al passaggio di pochi grammi di sostanza stupefacente. In questi casi l'adozione di un protocollo di intervento, l'essere inserito in una cornice normativa differente permetterebbe la possibilità di svolgere la professione educativa in modo molto più corretto, sicuro e garantito. Laddove la tipologia di intervento varia a secondo del luogo e delle modalità di azione della forza pubblica il prevedere anche l'attività di prevenzione estendendo la cornice normativa permetterebbe agli operatori sociali l'avvicinarsi a questi luoghi in modo molto più sicuro da un punto di vista legislativo, certo senza tollerare comportamenti che sono di comprovata cessione di rilevanti quantitativi di sostanza stupefacente. Quello che stupisce è che questi strumenti sono previsti dal testo unico, ma non sono stati quasi mai agiti se non da alcune realtà locali; ciò è preoccupante perché sicuramente si è visto che attraverso gli interventi di prevenzione degli educatori di prossimità si riesce non solo a monitorare il mondo del consumo, ma anche a fare un'attività di prevenzione più efficace. Attraverso la collaborazione con le scuole si potrebbe arrivare ad un terreno di disciplina che sicuramente permette un'azione più efficace. Se la buona volontà nell'intervento è già presente anche al di là delle garanzie esistenti, quello a cui, ripeto, bisogna puntare è una maggiore tutela degli operatori al pari del personale medico e paramedico.
Tutele che mi sembra debbano partire già dalla stesura del progetto ovvero quando si fa il progetto si deve prevedere che, in base agli articoli da te citati, l'intervento debba essere inserito in questa cornice normativa.
Le cooperative per le quali lavorano gli operatori se vengono inserite come enti ausiliari e vengono stipulati accordi dall'ente locale con il ser.t.; allora diviene più facile la possibilità di estendere anche all'operatore socio-sanitario la tutela prevista per i medici e gli esercenti la professione sanitaria come all'art. 200 del codice di procedura penale. Anche se l'operatore socio-sanitario non è solo una figura sanitaria, se il progetto viene caratterizzato come intervento socio-sanitario di prevenzione potrebbe essere possibile questa estensione di tutele.

Rispetto alla tutela del segreto professionale è importantissimo avere tutele legali, ma è anche vero che una chiarezza va posta in essere sempre sia dentro al Ser.t., che in strada. Per noi che lavoriamo nel ser.t. è più chiaro perché la cornice è maggiormente chiara e definita. Il punto è quella situazione di confine dove ti giochi la relazione, ma non solo in quanto vengono messe in discussione nel rapporto con i mondi giovanili la tua identità di operatore. Ciò è vero soprattutto nella professione dell'educatore di strada che deve avere la consapevolezza che stare in quella linea mobile dell'intervento destrutturato vuol dire non perdere mai di visti tutti gli obiettivi del percorso. E' chiaro che il supporto della formazione è fondamentale, mi piacerebbe pensare a degli eventi formativi in comune tra Ser.t., operatori di strada e pubblica polizia perché è solo nell'accettazione del lavoro degli altri e nella comprensione del limite del nostro lavoro evitiamo il rischio del divenire ibrido dell'operatore e oltre i problemi legali l'operatore si può giocare la salute. Oltre le tutele legali il problema rimane il dialogo tra le forze di polizia che devono applicare la legge e chi deve aiutare i ragazzi con modalità e tempi che non sempre coincidono con quelli della legge.

A questo proposito vediamo il caso dell'Inghilterra, dove, sebbene li si sia sempre adottato un modello medico più che un modello penale di regolamentazione degli interventi in materia di sostanze stupefacenti, lì vi sono sicuramente momenti di formazione congiunta. Le forze dell'ordine, loro si, hanno l'obbligo di intervento e denuncia, in Italia poi siamo in un regime di obbligo dell'azione penale16. Sarà quindi necessario un coordinamento ed un' azione congiunta anche perché altrimenti quella chiarezza del ruolo non viene a realizzarsi.
Un'ultima cosa sulle norme: l'art. 12717 prevede col fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga per le regioni, anche la possibilità di realizzare progetti integrati sul territorio di prevenzione primaria, secondaria e terziaria, compresi quelli volti alla riduzione del danno e la diffusione sul territorio di servizi socio-sanitari di primo intervento come le unità di strada. Solo là si parla di questi strumenti e sono i primi strumenti attraverso i quali magari si potrebbe riuscire ad arrivare ad una determinazione congiunta degli ambiti di intervento.

E' chiaro che una determinazione che preveda un intervento non solo in una fase in cui è insorta la malattia o in una fase in cui è insorta la tossicodipendenza, ma anche in una fase di prevenzione permette una maggiore chiarezza degli ambiti di intervento.

Gli educatori sono esposti anche perché spesso non è conosciuto il loro lavoro, quindi anche gli stessi enti che promuovono il loro intervento non ne conoscono i risvolti specifici e si fa fatica, poi, a richiedere questo tipo di tutele. Inoltre a volte ci troviamo di fronte a leggerezze da parte degli educatori che spesso non si pongono il tema dei rischi che corrono quando vanno a lavorare in alcuni contesti. 
Retelegale Bologna (Avv. Elia De Caro)
mercoledì 28 luglio 2010
La durata dell'ora di lezione è normalmente, come potrebbe sembrare ovvio, di sessanta minuti.
Tuttavia può accedere che, nelle scuole dove il fenomeno del pendolarismo è particolarmente diffuso fra gli studenti, gli orari scolastici non coincidano con quelli dei mezzi di trasporto. Per questo motivo (e, più in generale, per tutti i motivi di forza maggiore) la durata dell'ora di lezione può essere ridotta a cinquanta minuti.
Le riduzioni dell'orario possono essere decise solo per causa di forza maggiore e sono regolate dall'art. 28, comma 8, CCNL comparto scuola, del 24 ottobre 2007, il quale, a sua volta, stabilisce che “... la materia resta regolata dalle circolari ministeriali numero 243, del 22 settembre 1979 e 192, del 3 luglio 1980 ...”.
Ai sensi della circolare n. 243, in caso di “... accertate esigenze sociali degli studenti, derivanti da insuperabili difficoltà dei trasporti...”, “... nei giorni della settimana nei quali l'orario delle lezioni è di sette ore la riduzione può riferirsi alle prime due e alle ultime tre ore ...” e “non è configurabile alcun obbligo per i docenti di recuperare le frazioni orarie oggetto di riduzione”.
La circolare n. 192 del 1980, in riferimento alla n. 243 del 1979, stabilisce la possibilità di decidere “... eventuali riduzioni di orario anche nelle ipotesi non contemplate dalla predetta circolare”, estendendo la possibilità di riduzione e rendendola possibile sia per tutte le ore di lezione, sia per problemi diversi dal trasporto.
Nell'ambito delle varie controversie instauratesi per il rispetto del divieto di recupero, troppo frequentemente violato dai presidi, i vari Uffici scolastici regionali mantengono una linea abbastanza unitaria, sostenendo che l'orario scolastico è deciso dal Dirigente scolastico “...nella propria responsabilità gestionale, affidatagli da norme di legge (art. 25, del D. L.vo165/2001)” e che “... gli interventi del Consiglio d'istituto e del Collegio docenti...” sono meramente “preparatori”, rispetto alla decisione del dirigente scolastico.
In sostanza, il preside fa ciò che vuole, anche in barba a quanto deliberato dai vari organi collegiali (quando non sono gli stessi presidi ad orientare e guidare le decisioni).
Ciò non è assolutamente vero.
Ai fini di un corretto inquadramento giuridico-contrattuale della questione, appaiono fondamentali altre due norme: quella dell'art. 25, comma 2°, D.L.vo 165/2001, dove si stabilisce che l'esercizio dei poteri decisionali di gestione e organizzazione dell'istituto, deve avvenire “nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici”, e quella dell'art. 28, comma 8, del vigente CCNL comparto scuola, dove, sempre riferendosi all'eventuale diminuzione della durata dell'ora di lezione, si stabilisce che “... la relativa delibera è assunta dal consiglio di circolo o d'istituto”.
Pertanto, in base all'assetto normativo e contrattuale sopra evidenziato e tenuto conto delle dovute precisazioni, si può formulare il seguente principio: l'orario scolastico è deciso dal direttore scolastico; tuttavia (contrariamente a quanto affermato dai vari USR), in caso di accertate esigenze sociali degli studenti, derivanti da insuperabili difficoltà dei trasporti o da altri fattori, dietro delibera assunta dal consiglio di circolo o d'istituto, il preside può ridurre di dieci minuti la durata di tutte le ore di lezione, senza che possa configurarsi un obbligo di recupero in capo ai docenti.
In sintesi e per quanto qui interessa, quando esiste un'esigenza insuperabile, la conseguente riduzione dell'orario non deve essere recuperata.
La circostanza parrebbe di poco conto, ma l'esperienza quotidiana insegna che l'abuso dello strumento del recupero comporta per gli insegnati conseguenze piuttosto pesanti.
In alcuni istituti il preside è riuscito ad imporre ai docenti recuperi che superano le cento ore.
Le modalità di questi recuperi, poi, lasciano alquanto perplessi: vengono, infatti, poste a recupero anche le attività che si sarebbero dovute pagare con il fondo d'istituto, ottenendo, così un notevole, ma illegittimo, risparmio di denaro.
Alla contrattazione d'istituto spetta il compito di arginare la fame di denaro dei presidi, i quali, troppo spesso, scaricano sui docenti i costi dei tagli che la scuola sta subendo.
Il presente articolo verrà aggiornato all'esito delle varie iniziative giudiziarie ancora in corso.

Avv. Alberto Piloni - retelegale Ancona
lunedì 26 luglio 2010
Da fonti giornalistiche apprendiamo che il Senato in sede di conversione del decreto legge ha eliminato dalla manovra finanziaria l'innalzamento della percentuale pensionabile per gli invalidi civili che, pertanto, dovrebbe rimanere confermata al vigente 74%.
Il merito dell'eliminazione della modifica legislativa, che risponde ad esigenze di equità e buon senso (vedasi il precedente post con cui è stata analizzata la norma del decreto legge), si deve soprattutto alle associazioni di invalidi che hanno fatto sentire la loro protesta sin sotto le finestre di Montecitorio.
Il dietro front della maggioranza, inoltre, può definirsi una vittora del parlamentarismo rispetto alla vocazione presidenzialista attualmente predominante: una norma ingiusta approvata con decreto legge dal governo, infatti, è stata stralciata in sede di conversione da parte del Parlamento.
Avv. Luca Di Francesco, Retelegale Lecce.
giovedì 22 luglio 2010
Vanno risarciti i danni conseguenti ad una caduta causata da un'autovettura posteggiata su di un marciapiede - Commento alla sentenza del Tribunale di Camerino n. 352/08, del 27 dicembre 2008

La sera dell'Epifania del 2007 il signor XXXXXX posteggiava la propria autovettura su di un marciapiede; la signora XXXXXX, che percorreva quel marciapiede, nel tentare di passare nell'esiguo spazio lasciato ai pedoni, urtava lo specchietto retrovisore, cadeva dal marciapiede e, tentando di attutire la caduta, si procurava la frattura del polso destro. Portata presso il locale pronto soccorso, le veniva diagnosticata una frattura pluriframmentata metaepifisaria del radio destro, con spostamento dei monconi.
Interveniva sul posto la Polizia Municipale e, al proprietario del veicolo, elevava contravvenzione ai sensi dell'art. 158, comma 1°, lett. h), C.d.S..
La signora XXXXXX sporgeva querela nei confronti del proprietario dell'autovettura, che risultava anche essere l'autore dell'infelice parcheggio.
Il susseguente procedimento si svolgeva dinnanzi al Giudice di pace di San Severino Marche.
Nel corso del processo veniva accertato che:
l'auto era stata posteggiata sul marciapiede dall'imputato e lo ostruiva quasi per intero, lasciando solo due piccoli passaggi ai lati (tutti i testi, compresi quelli addotti dalla difesa, nonché le fotografie scattate nell'immediatezza dei fatti e prodotte dalle parti, confermavano la circostanza);
la signora XXXXXX, preceduta da altre due persone, tentava di passare lungo la striscia di marciapiede lasciata libera dalla vettura e posta sul lato prospiciente la strada (tutti i testi concordi);
la strada in questione risultava alquanto transitata ed il tratto in cui avveniva il sinistro risultava piuttosto insidioso in quanto posto sotto curva e, quindi, coperto (tutti i testi risultavano concordi); era, pertanto, troppo pericoloso, scendere dal marciapiede;
nel porre attenzione a dove metteva i piedi, la signora XXXXXX, anziana e con seri problemi di vista, urtava lo specchietto retrovisore destro dell'auto del signor XXXXXX e cadeva dal marciapiede sulla strada, rovinando a terra e procurandosi la frattura sopra descritta, con una malattia di 234 giorni, durante i quali subiva un lungo ricovero ospedaliero e due interventi di osteosintesi (testi concordi, certificazione medica e perizia medico-legale non contestati);
residuavano postumi permanenti invalidanti nella misura dell'8 %.
Il PM concludeva per la condanna dell'imputato alla multa di € 650,00.
La signora XXXXXX, costituitasi parte civile, concludeva chiedendo il ristoro dei danni subiti.
Con la sentenza n. 9/08 del 9 maggio 2008, Giudice di pace di San Severino Marche assolveva il signor XXXXXX dal reato p. e p. dall'art. 590 c.p., “perché il fatto non sussiste”.
Osservava il giudicante, che essendo l'auto “ferma e immobile, addirittura priva di conducente ....... il danno riportato non può essere ascritto alla circolazione stradale”, che non esisteva “...alcun nesso causale tra l'evento e la condotta tenuta dall'imputato”, in quanto “la macchina di questi, anche se parcheggiata fuori dagli appositi spazi, era comunque ferma, ben visibile e non costituiva affatto un pericolo occulto e imprevedibile”; concludeva, pertanto, che “l'evento si è verificato per l'imprudenza della signora XXXXXX”.
La signora XXXXXX proponeva appello ai soli effetti civili, dinnanzi al Tribunale di Camerino. La causa veniva discussa all'udienza del 23 dicembre 2008.
Con sentenza n. 352, del 27 dicembre 2008, in riforma della sentenza impugnata, il Tribunale condannava il signor XXXXXX al risarcimento del danno subito dalla signora XXXXXX, che quantificava in € 16.000,00, ed alla refusione delle spese di costituzione e di assistenza di parte civile per entrambi i gradi di giudizio.
Il giudice di secondo grado formulava questa importante premessa, che vale la pena di riportare per esteso:
“In tema di reato colposo, per poter addebitare un evento ad un determinato soggetto occorre accertare non solo la sussistenza del nesso causale materiale tra la condotta dell'agente (attiva od omissiva) e l'evento, ma anche la cosiddetta causalità della colpa, rispetto alla quale assumono un ruolo fondante la prevedibilità e l'evitabilità del fatto. Infatti, la responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione della norma, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a prevenire.
Compito del giudice in proposito, per poter formalizzare l'addebito, è quello di identificare una norma specifica avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che, all'epoca della creazione della regola, consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti. Per l'effetto, ai fini dell'addebito, l'accadimento verificatosi deve essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, realizzandosi, così, la cosiddetta concretizzazione del rischio.
Peraltro, affermare, come afferma l'articolo 43 c.p., che, per aversi colpa, l'evento deve essere stato causato da una condotta soggettivamente riprovevole, indica che anche l'indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) non avrebbe comunque evitato l'evento.
Si può, quindi, formalizzare l'addebito solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico o anche solo avrebbe determinato apprezzabili significative probabilità di scongiurare il danno (v. Cass., Sez. IV, 19512-08, Giuda al Diritto, n. 25, 2008, p. 93)”
Dopo una rapida disamina dei fatti risultanti dall'istruttoria di primo grado, il Giudicante passa all'esame del nesso causale fra la condotta del signor XXXXXX e l'evento lesivo.
Affermato che il nesso causale applicabile al tema della responsabilità extracontrattuale è lo stesso vigente a proposito del reato, identifica nella condotta accertata la condicio sine qua non dell'evento dannoso: “se la vettura fosse stata parcheggiata in modo regolare il fatto non si sarebbe verificato, perché la persona offesa sarebbe potuta passare agevolmente”.
Da ultimo, veniva esclusa l'esistenza di cause sopravvenute che, ai sensi e per gli effetti dell'art. 41, comma 2° cp, determinano l'interruzione del nesso causale (come sopra identificato) quando sono da sole sufficienti a determinare l'evento in quanto: “...è naturale che una persona non più in giovane età possa passare in modo disagevole in una situazione quale quella creata dall'imputato e, quindi, anche cadere, procurandosi lesioni”.
Alla data della sentenza non risultavano precedenti specifici.

Avv. Alberto Piloni - Retelegale Ancona
domenica 11 luglio 2010
Con l'art. 10 del decreto legge 31 maggio 2010 n°78 (la manovra di riduzione della spesa pubblica che sarebbe necessitata dalla crisi economica) è stata innalzata la soglia che dà diritto a percepire l'assegno di invalidità civile dal 74% al 85%.

La finalità è quella di ridurre la spesa pubblica eliminando (senza effetto retroattivo in quanto l'innalzamento si applica esclusivamente alle domande di riconoscimento inoltrate dopo il 1 giugno 2010) gli assegni di invalidità per coloro che abbiano un'invalidità parziale sino all'84%.

Il risparmio stimato dalle associazioni di tutela degli invalidi pare che sia di circa 30 milioni l'anno attesa l'esiguità degli importi erogati ed il basso limite redditualeper averne diritto (stiamo parlando di una prestazione economica di appena € 256,67 mensili con un limite di reddito annuo per il 2010 pari ad ad € 4.408,95.)

Tale modifica normativa, tuttavia, è stata approvata senza che siano state preventivamente oggetto di rivalutazione le tabelle delle minorazioni attraverso le quali si attribuiscono le percentuali invalidanti alle varie patologie (il grado invalidante di ciascuna patologia viene stabilito dalla legge con una percentuale fissa o con una percentuale variabile tra un valore ed un altro, spettando poi alle competenti commissioni sanitarie di stabilire l'esatta percentuale tra i valori minimi e massimi indicati).

Già nel passato (1992) fu innalzata la soglia percentuale per avere diritto alla prestazione economica dell'assegno dal 67% al 74% ma, contestualmente, furono approvate le nuove tabelle per l'invalidità civile frutto di una opportuna valutazione medico-legale da parte di apposita commissione di studio.

In maniera del tutto irrazionale, invece, l'attuale manovra economica innalza semplicemente la percentuale senza alcuna previa rivalutazione da parte di apposita commissione scientifica delle percentuali da attribuire alle singole patologie.

L'effetto di tale modo di procedere è quello di privare dell'assistenza sociale, prevista e garantita dalla Costituzione quei soggetti che pur essendo affetti da patologie importanti e particolarmente invalidanti (come la depressione endogena grave o la sindrome delirante cronica per le quali le attuali tabelle prevedono un'invalidità tra il 71 e l'80%) che sicuramente impediscono lo svolgimento di un proficuo lavoro (chi assumerebbe un depresso grave o uno schizofrenico con sindrome delirante?).

E' evidente che l'innalzamento della percentuale avulso da una riforma organica della materia che tenga conto innanzitutto di dare una giusta valutazione percentuale alle varie patologie sulla base di studi scientifici medico-legali, è da ritenersi ingiusta e, probabilmente incostituzionale per contrarietà all'art. 38 della Costituzione (che sebbene faccia riferimento testualmente al cittadino inabile comprendere sia gli invalidi totali che quelli con alti livelli di invalidità parziale) anche con riferimento all'art. 3, secondo comma, ed all'art. 2, secondo comma (ove si fa riferimento ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale).

Attualmente, a seguito delle proteste sostenute soprattutto dalle associazioni di disabili, sono allo studio delle soluzioni correttive. Pare che sia stato proposto un emendamento con il quale la percentuale del 74% sarebbe conservata per quelle patologie che da sole determinano un'invalidità pari o superiore al 74%.

In pratica l'assegno di invalidità non sarebbe riconosciuto a chi ha un'invalidità del 74% determinata da più patologie nessuna delle quali, da sola, raggiunge il 74%.

Anche questa soluzione dimostra l'assoluta improvvisazione giuridico-legislativa di chi approva una norma sbagliata e cerca di limitare i danni con un'altra norma altrettanto discutibile.

Chiunque ha dimestichezza con il concetto di uguaglianza dell'art. 3 della Costituzione si renderà immediatamente conto che la norma è evidentemente anticostituzionale perché crea disparità di trattamento tra l'invalido all'80% per una sola patologia (o per più patologie di cui una determina un'invalidità pari al 74%) e l'invalido all'80% per più patologie delle quali nessuna supera il 74%.

Mentre il primo avrà diritto alla prestazione economica il secondo, nonostante abbia il medesimo grado di invalidità, non ne avrà diritto.

Possibile che uno dei sette paesi più industrializzati del mondo non abbia alternative diverse per risanare i conti pubblici?

Possibile che per far fronte ad una situazione di crisi economica debbano per forza essere colpiti i soggetti più deboli della societa?

Mi chiedo che idea di stato e di democrazia è alla base di queste scelte legislative con le quali i principi di solidarietà sociale si applicano al contrario: non si chiede un sacrificio ai più ricchi (magari con un pressoché impercettibile aumento delle aliquote fiscali considerato che il risparmio di spesa stimato è assai modesto) per aiutare i soggetti che nella società si trovano in condizioni di disagio sociale, ma, al contrario, si impone agli invalidi un sacrificio per il bene della collettività!!!

Mi auguro che si possa trovare una soluzione alternativa di risparmio di spesa che non privi gli invalidi civili parziali di una prestazione che già è di importo così esiguo da costituire soltanto un modesto aiuto per (soprav)vivere con un minimo di dignità la propria esistenza.

Avv. Luca Di Francesco, Retelegale Lecce

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