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RETELEGALE FIRENZE

lunedì 22 novembre 2010
Quello che fino a ieri abbiamo chiamato provvisoriamente “Collegato Lavoro” oggi ha un suo nome definitivo ed un numero progressivo perché da progetto si è trasformato in legge: La legge 183/10 che sarà pubblicata sul supplemento ordinario 243 alla «Gazzetta Ufficiale» 262 di oggi 9 novembre 2010 e che, conseguentemente, dovrebbe entrare in vigore dal 24 novembre prossimo.

Molti di voi ricorderanno che questa legge ha avuto una sua prima vita a marzo di quest'anno quando al termine dell'iter parlamentare è stata inviata al Presidente della Repubblica per la firma. Napolitano, tuttavia, nell'esercizio dei suoi poteri, ha restituito il testo alle Camere con alcune annotazioni ritenendo una parte dello stesso disarmonico con i principi costituzionali. In particolare Giorgio Napolitano ha osservato come le norme in tema di Arbitrato escludessero il diritto costituzionalmente garantito per ogni cittadino di rivolgersi alla magistratura ordinaria per la tutela dei diritti.

A quel tempo, come Giuristi Democratici e come Retelegale.net abbiamo dato vita a numerose iniziative di sensibilizzazione e abbiamo registrato il rifiuto del Capo dello Stato come una vittoria, seppur temporanea.

A seguito di tale reimmissione del testo nel percorso legislativo, le Camere hanno introdotto significative modifiche a quella parte che il Presidente della Repubblica aveva chiaramente bollato come in odore di anticostituzionalità. Il resto della norma è rimasto praticamente identico.

Tuttavia, come avevamo già anticipato negli interventi pubblicati durante il dibattito parlamentare relativo alla prima stesura del Collegato Lavoro, le catastrofi che questa legge introduce sono due e non una. La prima catastrofe è l'introduzione dell'Arbitrato come metodo di risoluzione delle controversie in tema di diritto del lavoro e la seconda catastrofe è la riforma dei termini di decadenza per l'azione conseguente all'estinzione dei rapporti di lavoro.

Diciamo subito che la prima catastrofe è scongiurata mentre la seconda no.

Vediamo nel dettaglio che cosa è cambiato tra la prima e la seconda stesura della norma.
In tema di arbitrato:
Nella prima stesura si modificava l'art. 410 del Codice di Procedura Civile eliminando l'obbligatorietà del Tentativo di Conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro rendendolo facoltativo. Si introduceva, poi, la possibilità per il lavoratore ed il datore di lavoro di ricorrere, anziché al Giudice del Lavoro e quindi al Tribunale, ad un collegio arbitrale di misteriosa composizione, cui affidare il compito di decidere, anche secondo equità e quindi non secondo la legge, tutti le tipologie di controversia che fossero insorte tra le parti. Si introduceva, poi, subdolamente una “possibilità” per le parti di prevedere direttamente nel contratto di lavoro e quindi al momento dell'assunzione, l'obbligo di rivolgersi agli Arbitri e non al Tribunale in caso di controversie. Questa possibilità, in realtà, si sarebbe risolta in una favorevole opportunità per i datori di lavoro e in un obbligo per i lavoratori i quali, costretti dalla necessità di un lavoro e di una retribuzione, niente avrebbero potuto opporre rinunciando per sempre alle tutele previste dalla legge e alle garanzie di un processo davanti al Giudice del Lavoro.
Nel testo definitivo della 183/10, e precisamente nell'art. 31, per la verità, scompare questa sciagura e l'arbitrato si configura come una possibilità in tutto e per tutto e mai come un obbligo.
Resta la facoltatività del tentativo di conciliazione che, tuttavia, da semplice tavolo di funzionari che tentano di avvicinare le posizioni delle parti, si trasforma in un vero e proprio collegio con l'obbligo, al termine della discussione, di formulare una ipotesi transattiva il cui mancato accoglimento da parte di una delle parti dovrà essere valutato dal Giudice ai fini della decisione, ad esempio, in punto di attribuzione delle spese legali.
Ma, come visto, la novità positiva è che del tentativo di conciliazione possiamo molto volentieri fare a meno anche perché questo istituto, che fa perdere 60 giorni di tempo a chi agisce, in questi anni è servito principalmente ai datori di lavori per farsi degli sconti nell'ambito di controversie aventi ad oggetto il pagamento di retribuzioni dovute e non corrisposte. Il lavoratore si è spesso sentito proporre, in quella sede, una cifra di gran lunga inferiore rispetto a quanto effettivamente dovuto dal datore e si è trovato nelle condizioni di accettarla anche in considerazione della abnorme durata dei processi e dell'alea costituita per lo più dalla possibilità che, medio tempore, l'ex datore di lavoro fallisse o divenisse comunque insolvente vanificando l'azione giudiziaria.

Quanto alla possibilità di introdurre la clausola compromissoria, che altro non è se non l'accordo con il quale le parti deferiscono ad arbitri la controversia, direttamente nel contratto di lavoro, come si è detto, questa, nella stesura definitiva, scompare. Non solo: è vietata, così come è vietato stipulare il patto con il quale di sceglie di attribuire ad arbitri privati la competenza a decidere sulle controversie relative al rapporto di lavoro, prima che sia trascorso il periodo di prova per evitare comunque che il lavoratore si trovi in una condizione di soggezione e di impotenza di fornte alla richiesta del datore di lavoro. Non solo: il deferimento ad arbitri è sempre vietato per l'azione di impugnazione del licenziamento.
Come si vede ci troviamo in un quadro radicalmente diverso rispetto a quello che disegnava la prima versione della riforma scartata dal Capo dello Stato.
Adesso è compito nostro e di chiunque abbia a cuore la tutela dei diritti dei lavoratori divulgare il più possibile il suggerimento di rifiutarsi sempre e comunque di sottoscrivere accordi che limitino la giurisdizione del Giudice del Lavoro e la scagura è definitivamente scampata.

In tema di termini di decadenza per l'azione conseguente all'estinzione dei rapporti di lavoro.
E' l'art. 32 della 183/10 ad occuparsi di questo tema.  Non esiste alcuna differenza tra la prima e la seconda stesura della norma. Essendo la questione molto delicata procedo ad analizzare punto per punto facendo seguire ad ognuno una breve e schematica spiegazione.
Art. 32.
(Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato)
1. Il primo e il secondo comma dell'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sono sostituiti dai seguenti:
«Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso.
Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».”

Fin qui, verrebbe da dire, tutto bene, nel senso che oltre al termine di 60 giorni, che già esisteva, per impugnare anche stragiudizialmente (quindi con una raccomandata con ricevuta di ritorno e solo con quella) il licenziamento che si ritiene illegittimo, viene introdotto un secondo termine, di 270 giorni (circa nove mesi) per il deposito del ricorso presso il Tribunale. Non è un problema. Basta saperlo e francamente non credo siano molti i casi in cui il deposito avviene dopo un paio di mesi. Tant'è, questa è la nuova norma, basta starci attenti. Nessuno sconvolgimento. Naturalmente se si vuole coinvolgere la Direzione Provinciale del Lavoro con un preventivo esperimento del Tentativo di Conciliazione (sconsigliato), allora i termini si sospendono per poi ridecorrere dall'eventuale mancata conciliazione.

2. Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento.”

Ecco le prime note dolenti. Che significa questo inciso? Che bisogno c'è di inserirlo? Certamente vuol dire che questi termini si applicano al licenziamento per giusta causa, per giustificato motivo oggettivo e per giustificato motivo soggettivo invalidi, ma poi? A quali altri tipi invalidità di licenziamento? Ad esempio: sappiamo che il licenziamento, per legge, deve essere intimato in forma scritta per cui se viene intimato oralmente si parla di un tipo di recesso invalido. Fino a questo riforma non c'era alcun termine di decadenza perché i 60 gg. cominciavano a decorrere dalla data di ricezione della comunicazione per cui in assenza di questa non decorreva alcunché. Ma adesso? Non sarà che questa generica espressione comprende anche i licenziamenti intimati oralmente?Perché in quel caso sarebbe molto complicato provare il giorno in cui il recesso si è verificato per poi dimostrare che l'azione è stata esercitata entro i termini stabiliti dalla legge. Si pensi ad esempio ad un rapporto di lavoro totalmente o parzialmente irregolare e alla difficoltà di ottenere la collaborazione dei colleghi. Questo mi pare un problema di difficile soluzione e attenderemo che la Corte di Cassazione sia messa nelle condizioni di dare la corretta interpretazione alla norma sperando che questa vada nel senso di escludere l'applicabilità della stessa al caso del licenziamento intimato oralmente data la inesistenza giuridica di tale atto e non la sua semplice nullità.

3. Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre:
a) ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto;
b) al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui all'articolo 409, numero 3), del codice di procedura civile;
c) al trasferimento ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile, con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento;
d) all'azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo.”

Ecco il nucleo fondamentale e allo stesso tempo la parte più pericolosa della riforma.
Il termine di decadenza di 60 giorni per l'impugnazione e di 270 giorni per il deposito del ricorso non si applica più solo ai licenziamenti ma anche alle domande avente ad oggetto l'accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, e quindi alla conversione dei contratti precari (a termine a progetto, etc,) in contratti stabili e ai trasferimenti illegittimi. Si introduce, cioè, un termine ultimo oltre il quale si perde il diritto di agire per la tutela dei propri diritti in un ambito nel quale, come è noto, non si è immediatamente nelle condizioni di poter sapere se il rapporto di lavoro si stabilizzerà o meno. In molti casi, infatti, a seguito di una iniziale costituzione di un rapporto di lavoro parasubordinato (che quasi sempre simula un rapporto subordinato e quindi è convertibile) si viene assunti con contratto a termine (quasi certamente valido e non convertibile) con la promessa da parte del datore di lavoro di una futura stabilizzazione. Ma, e qui nasce il problema, se il termine del contratto spira dopo 60 giorni il lavoratore si trova nella difficile situazione di scegliere tra inviare la raccomandata in costanza di rapporto di lavoro, compromettendo la possibilità di vedere naturalmente stabilizzato il rapporto, o rinunciare all'azione confidando nella stabilizzazione che, come spesso avviene, potrebbe non concretizzarsi. Quello che è certo è che il precariato cambia pelle, si trasforma e, sotto alcuni profili, si istituzionalizza. La trasformazione del contratto precario nullo in contratto subordinato diventa un'azione con una dead-line, come direbbero gli aziendalisti, con un termine di decadenza esattamente come l'impugnazione di un licenziamento con una equiparazione che stabilisce la cronicità dell'uso improprio, o per meglio dire dell'abuso, dei contratti a progetto e di quelli a termine al punto da dover ricorrere ad un sistema di smaltimento dei ricorsi in nome della certezza dei diritti.

4. Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche:
a) ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine;
b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge;presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge;
c) alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento;
d) in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dall'articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.

Attenzione attenzione. E' necessario dare la massima diffusione a questa norma perché introduce un termine di decadenza preciso per tutti quei contratti a termine che si siano estinti prima dell'entrata in vigore della legge in esame. Il termine decorre dalla data di entrata in vigore della 183/10 e, quindi, dal 24 novembre 2010 e conseguentemente il termine ultimo per impugnare i contratti a termine, se non abbiamo fatto male i conti, è il 23 gennaio. Questa norma inciderà in maniera notevole sulle stabilizzazioni impedendo a moltissimi precari di esercitare i propri diritti anche perché la stampa e la maggior parte dei dibattiti sul contenuto di questa norma si sono concentrati sull'arbitrato senza evidenziare come in realtà la riforma peggiore fosse proprio questa.

5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.
6. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.
7. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell'articolo 421 del codice di procedura civile.”

Questi ultimi tre punti mettono un tetto al risarcimento del danno che il lavoratore può richiedere in caso di trasformazione del contratto a termine con l'aggravante di introdurre tale limite anche per le cause già in corso. Ancora sconti e sempre da una sola parte.

Al termine di questa disamina, che spero sia utile, vorrei svolgere una breve considerazione. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un attacco nei confronti dei diritti dei lavoratori. Non c'è dubbio. Ancora una volta si alleggeriscono le responsabilità di coloro che sfruttano il precariato per aumentare i profitti delle proprie aziende. In questi mesi, a proposito di questa riforma ho sentito molti parlare a sproposito di cancellazione dell'art. 18 e ho constatato la mancanza di una analisi approfondita sul tema che, purtroppo, oggi determina lo sdoganamento di un principio, come quello descritto dall'art. 32 sopra riportato, che peggiora senza dubbio la condizione dei lavoratori precari ma non sfiora neanche da lontano la condizione dei lavoratori c.d. garantiti né tanto meno l'applicabilità, a questi e solo a questi, dell'art. 18 St. Lav.
Ancora una volta, quindi, ci troviamo ad esaminare un testo di legge i cui mandanti sono gli imprenditori, gli industriali, i datori di lavoro. Mi chiedo, quando ci troveremo ad analizzare un testo di una riforma che proviene dalla parte dei lavoratori? Qual'è il progetto della sinistra per il diritto del lavoro? Quali sono le riforme che si ritengono urgenti e necessarie per ridare dignità al lavoro e quale il disegno complessivo all'interno del quale queste riforme possono dirsi credibili?
Credo che se non rispondiamo a questa seconda domanda non saremo in grado di rispondere alla prima. Ho la sensazione che la stagione della difesa debba finire per lasciar posto ad una stagione di proposte concrete, di inversione di tendenza reale, di contaminazione del dibattito con proposte di riforma a favore dei lavoratori, a favore delle retribuzioni e contro l'ulteriore utilizzo delle forme di lavoro precario. Altrimenti riforme come questa saranno solo piccoli assaggi, sperimentazioni di riforme più devastanti dal punto di vista sociale. Non può esistere un'Italia migliore senza un progetto complessivo in favore dei diritti dei lavoratori che, peraltro, sarebbe molto più armonico rispetto al dettato costituzionale dell'attuale assetto normativo e, per questo, sicuramente legittimo.

Marco Guercio, Retelegale Livorno,
Avvocato

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