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sabato 13 febbraio 2010
In attesa dell'ennesima proroga dell'esecuzione degli sfratti il dramma dei senza casa si fa di giorno in giorno più grave . Ormai la situazione è tale da sollecitare iniziative urgenti ed emergenziali. La situazione è nota: centinaia di migliaia di persone non possono più permettersi di pagare affitti e mutui e vengono cacciate mentre altrettanti alloggi rimangono vuoti. Il mercato immobiliare ha trovato un suo equilibrio a danno dei redditi bassi, che aumentano sempre di più a causa della crisi. Se così non fosse gli alloggi sfitti sarebbero molti meno.
Questo dramma non trova soluzione, come sarebbe auspicabile e prevedibile, nell'edilizia pubblica: non si costruiscono abbastanza case popolari e si abbandona sovente al degrado il patrimonio esistente, sicuramente per mancanza di fondi ma anche per una evidente volontà politica asservita al libero mercato.
Da più parti s'invocano quindi provvedimenti drastici, quanto meno per sopperire alla situazione contingente per poi passare ad una diversa gestione del bisogno abitativo. Nell'inerzia del legislatore è l'autorità amministrativa a doversi far carico della responsabilità, anche con scelte coraggiose, che però sono rarissime.
In questo senso lo strumento legale più efficace è certamente la requisizione degli immobili vuoti o inutilizzati, siano essi privati o pubblici.
La normativa in proposito e l'elaborazione giurisprudenziale recente non autorizzano però ad eccessivo ottimismo, ancorate come sono al concetto di “grave necessità pubblica” che in Italia corrisponde da sempre a “catastrofe naturale”, ovverosia terremoti, alluvioni e altri disastri.
In realtà il dato normativo di riferimento, l'art. 7, L. n. 2248/1865, all. E (non è un errore, è proprio una legge del 1865!), dispone che “allorchè per grave necessità pubblica l'Autorità amministrativa debba senza indugio disporre della proprietà privata...essa provvederà con decreto motivato, sempre però senza pregiudizio dei diritti delle parti”. Trattasi quindi di norma “in bianco” ad amplissima discrezionalità.
Chiaramente la disposizione, emanata ben prima della Costituzione, ha dovuto subire non pochi interventi di interpretazione e di aggiornamento da parte della giurisprudenza per essere adattata in particolare all'art. 42 della Carta del 1948, ove si afferma che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti e che può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale.
La competenza a requisire è pacificamente in capo al Prefetto e solo in caso di inerzia di questi può essere esercitata dal Sindaco.
In particolare è stato poi affermato che il potere di ordinanza ex art. 7, L. n. 2248/ 1865, all. E debba altresì rispettare, per quanto riguarda l'esercizio da parte del Sindaco, i requisiti previsti dall'art. 54 T.U.E.L. (art. 38, comma 2, L. n. 142/ 90) che al comma 4 dispone che “ Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità' pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione”.
La preventiva comunicazione al Prefetto farebbe peraltro propendere per un potere (dovere) esclusivo del Sindaco e semmai concorrente con quello del Prefetto.
E' quindi evidente che il problema che si pone è quello di poter inquadrare l'emergenza sfratti nella fattispecie prevista dal combinato disposto delle due norme e che richiede la ricorrenza di una grave necessità pubblica da prevenire o eliminare qualora minacci l'incolumità e la sicurezza urbana.
Sia i TAR che la Cassazione Penale hanno sostenuto che le esigenze abitative di nuclei familiari colpiti da sfratto non può ritenersi né eccezionale né tanto meno imprevedibile essendo invece la regola in ogni contesto urbano a differenza ad esempio di un crollo (vedasi TAR Roma 3534/04; TAR Catania 1154/ 04; Cass. Pen., n. 38259/ 07).
La prospettazione non convince, essendo fondata com'è solo sull'id quod plerumque accidit, di per sé inidoneo a descrivere i limiti di un potere statale. Paradossalmente poi lo strumento della requisizione, postulando l'esistenza di una situazione di urgenza o di emergenza non diversamente risolvibile, potrebbe legittimare condotte generalizzate di occupazione illecita o di morosità colpevole tali da creare i presupposti di un pericolo persino per l'ordine pubblico in caso di sgomberi e imporre quindi, sotto ricatto, l'adozione del provvedimento di requisizione.
E' quindi necessario ancorare lo strumento ad una lettura più coerente al precetto costituzionale che soprattutto tenga conto, come pare inevitabile per dare corretta applicazione alla regola della funzione sociale della proprietà privata, delle condizioni del mercato, dello stato dell'economia nazionale ed internazionale, del costo della vita, individuando così quelle condizioni di urgenza non diversamente risolvibili se non con la (temporanea e salvo indennizzo) compressione della proprietà privata.
Alessio Ariotto, Retelegale Torino
lunedì 11 gennaio 2010
La crisi ha fatto aumentare i pignoramenti immobiliari. Non sempre però il danno lo subisce solo il pignorato ma, a quanto pare, anche chi ha avuto la sfortuna di stipulare un contratto di locazione con qualcuno che poi subisce il pignoramento.
Fermo restando che un contratto di locazione stipulato dopo il pignoramento non è opponibile al creditore procedente, anche un contratto stipulato prima della trascrizione del pignoramento non garantisce del tutto al conduttore la possibilità di vivere tranquillo nella sua abitazione.
Pacifico in giurisprudenza che il contratto di locazione in corso alla data del pignoramento mantenga validità sino alla scadenza, ma che non possa aversi tacita riconduzione (ossia rinnovo automatico in assenza di disdetta nei termini) ma solo l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione a proseguire la locazione, parrebbe però ovvio prevedere che in assenza di autorizzazione il conduttore debba essere sfrattato secondo le regole ordinarie, onde non trovarsi in una situazione più svantaggiosa rispetto a quella del conduttore che ha stipulato con un locatore non vittima di pignoramento, situazione di cui il conduttore non è assolutamente responsabile.
Invece l'art. 586 c.p.c., al comma 2, stabilisce che il decreto di trasferimento del bene immobile pignorato è anche titolo esecutivo per il rilascio e quindi utilizzabile in danno del conduttore alla stregua di una convalida di sfratto.
In tale senso il Tribunale di Torino, con ordinanza 1.4.09 (R.G. nー3524/09,inedita).
Assolutamente non convincente appare l'argomentazione secondo cui in assenza di tacita riconduzione il decreto di trasferimento sarebbe utilizzabile quale titolo esecutivo anche in danno del conduttore di alloggio in forza di contratto stipulato (e registrato) anteriormente al pignoramento. Come detto il conduttore che abbia stipulato con un locatore poi vittima di pignoramento risulta infatti subordinato ad un procedimento di rilascio rispetto al quale non ha né possibilità di contraddire né tanto meno modo di far valere eventuali vizi del contratto o comunque questioni che possono il qualche modo influire sulla sua durata ed eventualmente postergare il termine di scadenza. Ciò pare integrare un'ipotesi di illegittimità costituzionale dell'art. 586 c.p.c., comma 2, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., questione sollevata nel citato procedimento e sbrigativamente risolta dal Tribunale attraverso un ultroneo riferimento all'art. 560 c.p.c., comma 2. Richiama il Tribunale la giurisprudenza della Cassazione (sez. IIIー, n. 26238/ 07 in Mass. Giust. Civ., 2007, 12) secondo cui “ ...la peculiare funzione del pignoramento nell'ambito del processo di esecuzione giustifica la particolarità della sua disciplina...”.
Pare invece poco corretto e contrario ad un'interpretazione costituzionalmente orientata (ormai sempre meno di moda!) far prevalere il diritto di credito sul ben più rilevante diritto alla casa.
Ma forse quello che vien fatto prevalere è il diritto di proprietà dell'aggiudicatario, il che è anche peggio...
Alessio Ariotto, Retelegale Torino
Fermo restando che un contratto di locazione stipulato dopo il pignoramento non è opponibile al creditore procedente, anche un contratto stipulato prima della trascrizione del pignoramento non garantisce del tutto al conduttore la possibilità di vivere tranquillo nella sua abitazione.
Pacifico in giurisprudenza che il contratto di locazione in corso alla data del pignoramento mantenga validità sino alla scadenza, ma che non possa aversi tacita riconduzione (ossia rinnovo automatico in assenza di disdetta nei termini) ma solo l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione a proseguire la locazione, parrebbe però ovvio prevedere che in assenza di autorizzazione il conduttore debba essere sfrattato secondo le regole ordinarie, onde non trovarsi in una situazione più svantaggiosa rispetto a quella del conduttore che ha stipulato con un locatore non vittima di pignoramento, situazione di cui il conduttore non è assolutamente responsabile.
Invece l'art. 586 c.p.c., al comma 2, stabilisce che il decreto di trasferimento del bene immobile pignorato è anche titolo esecutivo per il rilascio e quindi utilizzabile in danno del conduttore alla stregua di una convalida di sfratto.
In tale senso il Tribunale di Torino, con ordinanza 1.4.09 (R.G. nー3524/09,inedita).
Assolutamente non convincente appare l'argomentazione secondo cui in assenza di tacita riconduzione il decreto di trasferimento sarebbe utilizzabile quale titolo esecutivo anche in danno del conduttore di alloggio in forza di contratto stipulato (e registrato) anteriormente al pignoramento. Come detto il conduttore che abbia stipulato con un locatore poi vittima di pignoramento risulta infatti subordinato ad un procedimento di rilascio rispetto al quale non ha né possibilità di contraddire né tanto meno modo di far valere eventuali vizi del contratto o comunque questioni che possono il qualche modo influire sulla sua durata ed eventualmente postergare il termine di scadenza. Ciò pare integrare un'ipotesi di illegittimità costituzionale dell'art. 586 c.p.c., comma 2, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., questione sollevata nel citato procedimento e sbrigativamente risolta dal Tribunale attraverso un ultroneo riferimento all'art. 560 c.p.c., comma 2. Richiama il Tribunale la giurisprudenza della Cassazione (sez. IIIー, n. 26238/ 07 in Mass. Giust. Civ., 2007, 12) secondo cui “ ...la peculiare funzione del pignoramento nell'ambito del processo di esecuzione giustifica la particolarità della sua disciplina...”.
Pare invece poco corretto e contrario ad un'interpretazione costituzionalmente orientata (ormai sempre meno di moda!) far prevalere il diritto di credito sul ben più rilevante diritto alla casa.
Ma forse quello che vien fatto prevalere è il diritto di proprietà dell'aggiudicatario, il che è anche peggio...
Alessio Ariotto, Retelegale Torino
mercoledì 16 dicembre 2009
La crisi colpisce soprattutto il lavoro e con esso le esigenze più elementari, fra queste innanzi tutto la casa. Pagare affitti esorbitanti o rate di mutuo insostenibili è un dramma che assilla ormai sempre più persone.
Molti, i più risoluti o forse i più disperati, decidono di trovare comunque un luogo dove abitare, che non sia però solo un riparo precario ma possibilmente una vera casa, dove vivere, da soli o con la propria famiglia e magari provare anche a costruire un futuro.
Si tratta di un'esigenza primaria e naturale, che si scontra però con gli interessi del profitto e della proprietà.
A mitigare in parte questi problemi dovrebbe pensarci l'edilizia popolare, strumento strategico di politica abitativa, ormai sempre più abbandonato a vantaggio dell'edilizia convenzionata secondo il dogma che tutto ciò che può essere fatto dai privati non si vede perchè dovrebbe essere fatto dallo Stato visto che i privati lo fanno meglio.
Ma purtroppo non è così in nessun settore.
Nel frattempo il patrimonio abitativo pubblico subisce un lento ed inesorabile degrado che sovente si conclude con la necessità di vendere ai privati o con la demolizione.
Quando però stabili abbandonati da anni vengono occupati, talvolta da chi è stufo di aspettare un'assegnazione che non arriva mai, allora improvvisamente quegli stessi alloggi dimenticati, spesso al limite dell'abitabilità e della sicurezza, tornano ad essere “un bene comune”, “un bene della collettività”, un “diritto che deve essere rispettato”, salvo tornare nel dimenticatoio appena liberati dagli occupanti.
A questo punto il Diritto (e sua madre, la Giustizia), scomparsi sino a quel momento, tornano ad occupare la scena (della tragedia o della commedia, in questi casi la contaminazione è assoluta) sotto forma di agenti di polizia municipale che su sollecitazione diretta dell'ente di gestione (gli ex Istituti Case Popolari) e con il consenso del sindaco o dell'assessore “competente”, con modi spicci se non anche rudi, sloggiano i malcapitati. Sovente compare anche personale della Questura (il più delle volte dell'ufficio Digos perchè occupare, loro lo sanno bene, è chiaramente un atto eversivo) e qualche pattuglia dei Carabinieri.
Le immagini disponibili sono sempre poche, perchè mostrare donne sole, bambini, anziani o malati, italiani o migranti, spinti fuori di casa, magari d'inverno, magari mentre stanno cenando o mentre si preparano ad andare a scuola o al lavoro, dà sempre fastidio e rischierebbe di muovere persino a pietà e ad umana solidarietà qualcuno.
Di norma però la vicenda viene confusa, chissà quanto casualmente, con gli sgomberi degli spazi occupati da squatter e antagonisti o con l'emergenza sfratti, ma si tratta di una cosa ben diversa.
Puntuale arriva la denuncia per il reato di “invasione di edifici”, art. 633 c.p. e tutto sembra rientrare nella “legalità” istituzionale.
Ma forse non è così.
Intanto l'art. 633 c.p. punisce chi invade arbitrariamente edifici altrui, che siano pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altro tipo di profitto. Il reato è punibile a querela, salvo che il fatto sia compiuto da più di cinque persone di cui almeno una palesemente armata o da più di dieci persone (cioè undici, ossia una squadra di calcio senza riserve). Sempre d'ufficio si procede se si tratta di edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. La nozione di edificio pubblico si rinviene nel Codice Civile agli artt. 822 (beni del Demanio) e 826 (beni del Patrimonio dello Stato e degli enti locali).
Le case popolari – chiamiamole così che riscalda il cuore e dà speranza – sebbene siano in proprietà di Comuni o Province, non sono beni pubblici da nessun punto di vista ed in tal senso si è espressa anche la Cassazione. Se a ciò aggiungiamo che l'ente gestore, che esercita tutte le funzioni del proprietario quale suo mandatario ex lege, oltre a non essere un ente pubblico può persino essere un privato (sottoforma di società partecipata o altro strumento giuridico previsto dall'esternalizzazione), ne segue che la querela è indispensabile e condiziona l'esercizio dell'azione penale.
A fronte quindi di un reato perseguibile a querela è francamente poco credibile che un soggetto non rivestito di pubbliche funzioni, né amministrative in senso stretto né tanto meno giudiziarie o giurisdizionali, possa ordinare un facere alla polizia giudiziaria ex art. 55 c.p.p.
Nel caso specifico poi il reato di invasione di edifici è considerato dalla prevalente giurisprudenza e dalla più avveduta dottrina (come si usa dire quando ci si riferisce alle posizioni dei giuristi sensibili alle tematiche sociali) come a condotta istantanea e non permanente. L'occupazione successiva rientra quindi fra i c.d. post- facta non punibili, rilevante solo sul piano civilistico quale violazione del “sacrosanto” diritto di proprietà, di cui in questa sede non mette conto parlare ed in merito al quale, fra i numerosi, ci si limita a segnalare un solo riferimento bibliografico: il Capitale di K. Marx.
A ciò va poi aggiunta un'ulteriore considerazione: l'invasione deve essere “arbitraria” perchè sia penalmente rilevante e l'arbitrarietà di una condotta consiste nell'essere del tutto ingiustificata, libera e una fra numerose varianti possibili tutte preferibili (in quanto più logiche o, trattandosi di norme, lecite). Ma la condotta di chi “invade” un alloggio non abitato per riparare sè e i soggetti verso cui ha un obbligo di cura e protezione (minori, anziani, malati, e perchè no animali) dai rigori dell'inverno (ma anche dal torrido caldo estivo) di certo non può ritenersi libera ma del tutto necessitata, non solo, si badi bene, dall'urgenza di sopperire ad un'esigenza fondamentale di sopravvivenza, ma anche per assolvere ad un obbligo legale espressamente imposto dall'ordinamento a chi si trovi in situazione, anche momentanea, di tutela rispetto ad un altro soggetto debole ed in sostanza svolgendo una funzione del tutto vicaria e sostitutiva a quella colposamente omessa dagli enti preposti; in Italia costituzionalmente preposti.
Viene in mente un caso famoso di invasione di edificio, compiuto circa 2010 anni fa, a danno di un ignaro pastore della Palestina, da parte di una coppia di migranti, lei incinta e ormai prossima al parto...
Buon Natale
(a tutti gli occupanti di case, ma soprattutto ai sindaci, ai questori, ai prefetti, ai ministri...)
Alessio Ariotto, RETELEGALE Torino
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