Lettori fissi

RETELEGALE FIRENZE

mercoledì 28 luglio 2010
La durata dell'ora di lezione è normalmente, come potrebbe sembrare ovvio, di sessanta minuti.
Tuttavia può accedere che, nelle scuole dove il fenomeno del pendolarismo è particolarmente diffuso fra gli studenti, gli orari scolastici non coincidano con quelli dei mezzi di trasporto. Per questo motivo (e, più in generale, per tutti i motivi di forza maggiore) la durata dell'ora di lezione può essere ridotta a cinquanta minuti.
Le riduzioni dell'orario possono essere decise solo per causa di forza maggiore e sono regolate dall'art. 28, comma 8, CCNL comparto scuola, del 24 ottobre 2007, il quale, a sua volta, stabilisce che “... la materia resta regolata dalle circolari ministeriali numero 243, del 22 settembre 1979 e 192, del 3 luglio 1980 ...”.
Ai sensi della circolare n. 243, in caso di “... accertate esigenze sociali degli studenti, derivanti da insuperabili difficoltà dei trasporti...”, “... nei giorni della settimana nei quali l'orario delle lezioni è di sette ore la riduzione può riferirsi alle prime due e alle ultime tre ore ...” e “non è configurabile alcun obbligo per i docenti di recuperare le frazioni orarie oggetto di riduzione”.
La circolare n. 192 del 1980, in riferimento alla n. 243 del 1979, stabilisce la possibilità di decidere “... eventuali riduzioni di orario anche nelle ipotesi non contemplate dalla predetta circolare”, estendendo la possibilità di riduzione e rendendola possibile sia per tutte le ore di lezione, sia per problemi diversi dal trasporto.
Nell'ambito delle varie controversie instauratesi per il rispetto del divieto di recupero, troppo frequentemente violato dai presidi, i vari Uffici scolastici regionali mantengono una linea abbastanza unitaria, sostenendo che l'orario scolastico è deciso dal Dirigente scolastico “...nella propria responsabilità gestionale, affidatagli da norme di legge (art. 25, del D. L.vo165/2001)” e che “... gli interventi del Consiglio d'istituto e del Collegio docenti...” sono meramente “preparatori”, rispetto alla decisione del dirigente scolastico.
In sostanza, il preside fa ciò che vuole, anche in barba a quanto deliberato dai vari organi collegiali (quando non sono gli stessi presidi ad orientare e guidare le decisioni).
Ciò non è assolutamente vero.
Ai fini di un corretto inquadramento giuridico-contrattuale della questione, appaiono fondamentali altre due norme: quella dell'art. 25, comma 2°, D.L.vo 165/2001, dove si stabilisce che l'esercizio dei poteri decisionali di gestione e organizzazione dell'istituto, deve avvenire “nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici”, e quella dell'art. 28, comma 8, del vigente CCNL comparto scuola, dove, sempre riferendosi all'eventuale diminuzione della durata dell'ora di lezione, si stabilisce che “... la relativa delibera è assunta dal consiglio di circolo o d'istituto”.
Pertanto, in base all'assetto normativo e contrattuale sopra evidenziato e tenuto conto delle dovute precisazioni, si può formulare il seguente principio: l'orario scolastico è deciso dal direttore scolastico; tuttavia (contrariamente a quanto affermato dai vari USR), in caso di accertate esigenze sociali degli studenti, derivanti da insuperabili difficoltà dei trasporti o da altri fattori, dietro delibera assunta dal consiglio di circolo o d'istituto, il preside può ridurre di dieci minuti la durata di tutte le ore di lezione, senza che possa configurarsi un obbligo di recupero in capo ai docenti.
In sintesi e per quanto qui interessa, quando esiste un'esigenza insuperabile, la conseguente riduzione dell'orario non deve essere recuperata.
La circostanza parrebbe di poco conto, ma l'esperienza quotidiana insegna che l'abuso dello strumento del recupero comporta per gli insegnati conseguenze piuttosto pesanti.
In alcuni istituti il preside è riuscito ad imporre ai docenti recuperi che superano le cento ore.
Le modalità di questi recuperi, poi, lasciano alquanto perplessi: vengono, infatti, poste a recupero anche le attività che si sarebbero dovute pagare con il fondo d'istituto, ottenendo, così un notevole, ma illegittimo, risparmio di denaro.
Alla contrattazione d'istituto spetta il compito di arginare la fame di denaro dei presidi, i quali, troppo spesso, scaricano sui docenti i costi dei tagli che la scuola sta subendo.
Il presente articolo verrà aggiornato all'esito delle varie iniziative giudiziarie ancora in corso.

Avv. Alberto Piloni - retelegale Ancona
lunedì 26 luglio 2010
Da fonti giornalistiche apprendiamo che il Senato in sede di conversione del decreto legge ha eliminato dalla manovra finanziaria l'innalzamento della percentuale pensionabile per gli invalidi civili che, pertanto, dovrebbe rimanere confermata al vigente 74%.
Il merito dell'eliminazione della modifica legislativa, che risponde ad esigenze di equità e buon senso (vedasi il precedente post con cui è stata analizzata la norma del decreto legge), si deve soprattutto alle associazioni di invalidi che hanno fatto sentire la loro protesta sin sotto le finestre di Montecitorio.
Il dietro front della maggioranza, inoltre, può definirsi una vittora del parlamentarismo rispetto alla vocazione presidenzialista attualmente predominante: una norma ingiusta approvata con decreto legge dal governo, infatti, è stata stralciata in sede di conversione da parte del Parlamento.
Avv. Luca Di Francesco, Retelegale Lecce.
giovedì 22 luglio 2010
Vanno risarciti i danni conseguenti ad una caduta causata da un'autovettura posteggiata su di un marciapiede - Commento alla sentenza del Tribunale di Camerino n. 352/08, del 27 dicembre 2008

La sera dell'Epifania del 2007 il signor XXXXXX posteggiava la propria autovettura su di un marciapiede; la signora XXXXXX, che percorreva quel marciapiede, nel tentare di passare nell'esiguo spazio lasciato ai pedoni, urtava lo specchietto retrovisore, cadeva dal marciapiede e, tentando di attutire la caduta, si procurava la frattura del polso destro. Portata presso il locale pronto soccorso, le veniva diagnosticata una frattura pluriframmentata metaepifisaria del radio destro, con spostamento dei monconi.
Interveniva sul posto la Polizia Municipale e, al proprietario del veicolo, elevava contravvenzione ai sensi dell'art. 158, comma 1°, lett. h), C.d.S..
La signora XXXXXX sporgeva querela nei confronti del proprietario dell'autovettura, che risultava anche essere l'autore dell'infelice parcheggio.
Il susseguente procedimento si svolgeva dinnanzi al Giudice di pace di San Severino Marche.
Nel corso del processo veniva accertato che:
l'auto era stata posteggiata sul marciapiede dall'imputato e lo ostruiva quasi per intero, lasciando solo due piccoli passaggi ai lati (tutti i testi, compresi quelli addotti dalla difesa, nonché le fotografie scattate nell'immediatezza dei fatti e prodotte dalle parti, confermavano la circostanza);
la signora XXXXXX, preceduta da altre due persone, tentava di passare lungo la striscia di marciapiede lasciata libera dalla vettura e posta sul lato prospiciente la strada (tutti i testi concordi);
la strada in questione risultava alquanto transitata ed il tratto in cui avveniva il sinistro risultava piuttosto insidioso in quanto posto sotto curva e, quindi, coperto (tutti i testi risultavano concordi); era, pertanto, troppo pericoloso, scendere dal marciapiede;
nel porre attenzione a dove metteva i piedi, la signora XXXXXX, anziana e con seri problemi di vista, urtava lo specchietto retrovisore destro dell'auto del signor XXXXXX e cadeva dal marciapiede sulla strada, rovinando a terra e procurandosi la frattura sopra descritta, con una malattia di 234 giorni, durante i quali subiva un lungo ricovero ospedaliero e due interventi di osteosintesi (testi concordi, certificazione medica e perizia medico-legale non contestati);
residuavano postumi permanenti invalidanti nella misura dell'8 %.
Il PM concludeva per la condanna dell'imputato alla multa di € 650,00.
La signora XXXXXX, costituitasi parte civile, concludeva chiedendo il ristoro dei danni subiti.
Con la sentenza n. 9/08 del 9 maggio 2008, Giudice di pace di San Severino Marche assolveva il signor XXXXXX dal reato p. e p. dall'art. 590 c.p., “perché il fatto non sussiste”.
Osservava il giudicante, che essendo l'auto “ferma e immobile, addirittura priva di conducente ....... il danno riportato non può essere ascritto alla circolazione stradale”, che non esisteva “...alcun nesso causale tra l'evento e la condotta tenuta dall'imputato”, in quanto “la macchina di questi, anche se parcheggiata fuori dagli appositi spazi, era comunque ferma, ben visibile e non costituiva affatto un pericolo occulto e imprevedibile”; concludeva, pertanto, che “l'evento si è verificato per l'imprudenza della signora XXXXXX”.
La signora XXXXXX proponeva appello ai soli effetti civili, dinnanzi al Tribunale di Camerino. La causa veniva discussa all'udienza del 23 dicembre 2008.
Con sentenza n. 352, del 27 dicembre 2008, in riforma della sentenza impugnata, il Tribunale condannava il signor XXXXXX al risarcimento del danno subito dalla signora XXXXXX, che quantificava in € 16.000,00, ed alla refusione delle spese di costituzione e di assistenza di parte civile per entrambi i gradi di giudizio.
Il giudice di secondo grado formulava questa importante premessa, che vale la pena di riportare per esteso:
“In tema di reato colposo, per poter addebitare un evento ad un determinato soggetto occorre accertare non solo la sussistenza del nesso causale materiale tra la condotta dell'agente (attiva od omissiva) e l'evento, ma anche la cosiddetta causalità della colpa, rispetto alla quale assumono un ruolo fondante la prevedibilità e l'evitabilità del fatto. Infatti, la responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione della norma, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a prevenire.
Compito del giudice in proposito, per poter formalizzare l'addebito, è quello di identificare una norma specifica avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che, all'epoca della creazione della regola, consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti. Per l'effetto, ai fini dell'addebito, l'accadimento verificatosi deve essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, realizzandosi, così, la cosiddetta concretizzazione del rischio.
Peraltro, affermare, come afferma l'articolo 43 c.p., che, per aversi colpa, l'evento deve essere stato causato da una condotta soggettivamente riprovevole, indica che anche l'indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) non avrebbe comunque evitato l'evento.
Si può, quindi, formalizzare l'addebito solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico o anche solo avrebbe determinato apprezzabili significative probabilità di scongiurare il danno (v. Cass., Sez. IV, 19512-08, Giuda al Diritto, n. 25, 2008, p. 93)”
Dopo una rapida disamina dei fatti risultanti dall'istruttoria di primo grado, il Giudicante passa all'esame del nesso causale fra la condotta del signor XXXXXX e l'evento lesivo.
Affermato che il nesso causale applicabile al tema della responsabilità extracontrattuale è lo stesso vigente a proposito del reato, identifica nella condotta accertata la condicio sine qua non dell'evento dannoso: “se la vettura fosse stata parcheggiata in modo regolare il fatto non si sarebbe verificato, perché la persona offesa sarebbe potuta passare agevolmente”.
Da ultimo, veniva esclusa l'esistenza di cause sopravvenute che, ai sensi e per gli effetti dell'art. 41, comma 2° cp, determinano l'interruzione del nesso causale (come sopra identificato) quando sono da sole sufficienti a determinare l'evento in quanto: “...è naturale che una persona non più in giovane età possa passare in modo disagevole in una situazione quale quella creata dall'imputato e, quindi, anche cadere, procurandosi lesioni”.
Alla data della sentenza non risultavano precedenti specifici.

Avv. Alberto Piloni - Retelegale Ancona
domenica 11 luglio 2010
Con l'art. 10 del decreto legge 31 maggio 2010 n°78 (la manovra di riduzione della spesa pubblica che sarebbe necessitata dalla crisi economica) è stata innalzata la soglia che dà diritto a percepire l'assegno di invalidità civile dal 74% al 85%.

La finalità è quella di ridurre la spesa pubblica eliminando (senza effetto retroattivo in quanto l'innalzamento si applica esclusivamente alle domande di riconoscimento inoltrate dopo il 1 giugno 2010) gli assegni di invalidità per coloro che abbiano un'invalidità parziale sino all'84%.

Il risparmio stimato dalle associazioni di tutela degli invalidi pare che sia di circa 30 milioni l'anno attesa l'esiguità degli importi erogati ed il basso limite redditualeper averne diritto (stiamo parlando di una prestazione economica di appena € 256,67 mensili con un limite di reddito annuo per il 2010 pari ad ad € 4.408,95.)

Tale modifica normativa, tuttavia, è stata approvata senza che siano state preventivamente oggetto di rivalutazione le tabelle delle minorazioni attraverso le quali si attribuiscono le percentuali invalidanti alle varie patologie (il grado invalidante di ciascuna patologia viene stabilito dalla legge con una percentuale fissa o con una percentuale variabile tra un valore ed un altro, spettando poi alle competenti commissioni sanitarie di stabilire l'esatta percentuale tra i valori minimi e massimi indicati).

Già nel passato (1992) fu innalzata la soglia percentuale per avere diritto alla prestazione economica dell'assegno dal 67% al 74% ma, contestualmente, furono approvate le nuove tabelle per l'invalidità civile frutto di una opportuna valutazione medico-legale da parte di apposita commissione di studio.

In maniera del tutto irrazionale, invece, l'attuale manovra economica innalza semplicemente la percentuale senza alcuna previa rivalutazione da parte di apposita commissione scientifica delle percentuali da attribuire alle singole patologie.

L'effetto di tale modo di procedere è quello di privare dell'assistenza sociale, prevista e garantita dalla Costituzione quei soggetti che pur essendo affetti da patologie importanti e particolarmente invalidanti (come la depressione endogena grave o la sindrome delirante cronica per le quali le attuali tabelle prevedono un'invalidità tra il 71 e l'80%) che sicuramente impediscono lo svolgimento di un proficuo lavoro (chi assumerebbe un depresso grave o uno schizofrenico con sindrome delirante?).

E' evidente che l'innalzamento della percentuale avulso da una riforma organica della materia che tenga conto innanzitutto di dare una giusta valutazione percentuale alle varie patologie sulla base di studi scientifici medico-legali, è da ritenersi ingiusta e, probabilmente incostituzionale per contrarietà all'art. 38 della Costituzione (che sebbene faccia riferimento testualmente al cittadino inabile comprendere sia gli invalidi totali che quelli con alti livelli di invalidità parziale) anche con riferimento all'art. 3, secondo comma, ed all'art. 2, secondo comma (ove si fa riferimento ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale).

Attualmente, a seguito delle proteste sostenute soprattutto dalle associazioni di disabili, sono allo studio delle soluzioni correttive. Pare che sia stato proposto un emendamento con il quale la percentuale del 74% sarebbe conservata per quelle patologie che da sole determinano un'invalidità pari o superiore al 74%.

In pratica l'assegno di invalidità non sarebbe riconosciuto a chi ha un'invalidità del 74% determinata da più patologie nessuna delle quali, da sola, raggiunge il 74%.

Anche questa soluzione dimostra l'assoluta improvvisazione giuridico-legislativa di chi approva una norma sbagliata e cerca di limitare i danni con un'altra norma altrettanto discutibile.

Chiunque ha dimestichezza con il concetto di uguaglianza dell'art. 3 della Costituzione si renderà immediatamente conto che la norma è evidentemente anticostituzionale perché crea disparità di trattamento tra l'invalido all'80% per una sola patologia (o per più patologie di cui una determina un'invalidità pari al 74%) e l'invalido all'80% per più patologie delle quali nessuna supera il 74%.

Mentre il primo avrà diritto alla prestazione economica il secondo, nonostante abbia il medesimo grado di invalidità, non ne avrà diritto.

Possibile che uno dei sette paesi più industrializzati del mondo non abbia alternative diverse per risanare i conti pubblici?

Possibile che per far fronte ad una situazione di crisi economica debbano per forza essere colpiti i soggetti più deboli della societa?

Mi chiedo che idea di stato e di democrazia è alla base di queste scelte legislative con le quali i principi di solidarietà sociale si applicano al contrario: non si chiede un sacrificio ai più ricchi (magari con un pressoché impercettibile aumento delle aliquote fiscali considerato che il risparmio di spesa stimato è assai modesto) per aiutare i soggetti che nella società si trovano in condizioni di disagio sociale, ma, al contrario, si impone agli invalidi un sacrificio per il bene della collettività!!!

Mi auguro che si possa trovare una soluzione alternativa di risparmio di spesa che non privi gli invalidi civili parziali di una prestazione che già è di importo così esiguo da costituire soltanto un modesto aiuto per (soprav)vivere con un minimo di dignità la propria esistenza.

Avv. Luca Di Francesco, Retelegale Lecce
venerdì 25 giugno 2010
Con le sentenze in esame la Corte di Cassazione a sezioni unite ribadisce alcuni importanti principi:
1) che il diritto all'indennità di occupazione matura al compimento di ogni singola annualità, per cui il parametro di riferimento, è quello del valore venale attuale del bene, passibile nel tempo di variazioni dipendenti dallo specifico mercato immobiliare di riferimento. "Ne consegue che, se la determinazione monetaria del valore venale de bene abbia subito variazioni apprezzabili nello sviluppo delle occupazione legittima e registrabili alle singole consecutive cadenze annuali, ad ogni scadenza dovrà procedersi al calcolo virtuale della indennità di espropriazione fondata anche sul valore venale del bene, come tale soggetto a variazioni nel tempo. Tuttavia, la diversità tra la data di effettiva valutazione dell'immobile e quella di maturazione del diritto a percepire l'indennizzo per la scadenza dell'annualità di occupazione legittima non rende censurabile la liquidazione di detto indennizzo, ove non si dimostri un apprezzabile divario del valore del bene in tali rispettivi momenti" (Cass., sez. 1^, 27 luglio 2007, n. 16744, m. 600839, Cass., sez. 1^, 16 settembre 2009, n. 19972, m. 610574).
2) che l'edificabilità del fondo deve necessariamente essere commisurata ad indici "medi" di fabbricabilità riferiti (o riferibili) all'intera zona omogenea, al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato, nel senso che, ove non si ritenga di stimare il terreno ricorrendo a criteri comparativi basati sul valore di aree omogenee, l'adozione del metodo analitico - ricostruttivo comporta che l'accertamento dei volumi realizzabili sull'area non possa basarsi sull'indice fondiario di edificabilità (che è riferito alle singole aree specificamente destinate all'edificazione privata) e che, invece, postulando l'esercizio concreto dello ius aedificandi che l'area sia urbanizzata e, che si tenga conto dell'incidenza degli spazi all'uopo riservati ad infrastrutture e servizi a carattere generale, si debba prescindere come dal fatto che l'area sia (eventualmente) destinata ad usi che non comportano specifica realizzazione di opere edilizie (verde pubblico, viabilità, parcheggi) non potendo l'edificabilità essere vanificata dalla utilizzabilità non strettamente residenziale, così dalla maggiore o minore fabbricabilità che il fondo venga a godere o subire per effetto delle disposizioni di piano attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni ovvero servizi ed infrastrutture, di guisa che tutti i terreni espropriati in uno stesso ambito zonale vengano a percepire la stessa indennità, calcolata su una valutazione del fondo da formulare sulla potenzialità edificatoria "media" di tutto il comprensorio, ovvero dietro applicazione di un indice di fabbricabilità (territoriale che sia frutto del rapporto tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato" (Cass., sez. 1^, 29 novembre 2006, n. 25363, m. 593279, Cass., sez. un., 21 marzo 2001, n. 125, m. 544 961, Cass., sez. 1^, 16 maggio 2006, n. 11477, m. 590405, Cass., sez. 1^, 16 giugno 2006, n. 13958, m. 590694).
3) che gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria non essendo sufficiente la sola presentazione dell'istanza relativa. Pertanto non si applica nella liquidazione il criterio del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste, ma si valuta la sola area, si da evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere anche indirettamente ad accrescere il valore del fondo" (Cass., sez. 1^, 14 dicembre 2007, n. 26260, m. 600949). Ne "consegue che, ove si tratti di immobile costruito abusivamente, ed in relazione al quale sia stata successivamente avanzata istanza di condono edilizio, ai fini della determinazione della condizione urbanistica dello stesso, necessaria per stabilirne il reale valore di mercato, e, quindi, determinare la indennità di occupazione legittima, si richiede l'accertamento della circostanza dell'avvenuto rilascio della concessione in sanatoria, non essendo sufficiente la sola considerazione della presentazione della predetta istanza" (Cass., sez., un., 22 luglio 1999, n. 499, m. 528864). In conclusione ai proprietari non compete alcuna indennità, né di espropriazione né di occupazione legittima, per le opere abusivamente realizzate, se all'epoca in cui fu decretata l'espropriazione dei fondi sui quali insistono, non erano state ancora condonate.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
lunedì 21 giugno 2010
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 04 marzo 2010 n. 5209 (in Guida al Lavoro n. 18-2010), ha affermato che: “In tema di rappresentatività sindacale il criterio legale dell’effettività dell’azione sindacale equivale al riconoscimento della capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale nella regolamentazione dei rapporti lavorativi. Ne consegue che al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale –richiesto per legittimare l’azione di repressione antisindacale ex art. 28 Stat. Lav.- assume rilievo, più che la diffusione delle articolazioni territoriali, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi, anche gestionali, che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e attestano un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio economico dell’intero paese …”.
Il principio elaborato dalla Corte di Legittimità, nella predetta pronuncia, non appare ad opinione di chi scrive convincente.
Alla luce di tale mancata adesione, si rende, allora, opportuno chiarire le ragioni di critica.
* ° *
Il Giudice delle Leggi [1], in anni lontani, ebbe modo di precisare che “la garanzia del libero sviluppo di una normale dialettica sindacale è assicurata dallo Statuto, non solo attraverso il divieto dei sindacati di comodo (art. 17), ma anche e soprattutto attraverso il fondamentale strumento di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro previsto dall’articolo 28, il cui impiego presuppone una dimensione organizzativa –quella nazionale- che, per non essere legata …. alla stipulazione di contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche alle organizzazioni che dissentono dalle politiche sindacali maggioritarie perseguite a quel livello. …”.
La Corte Costituzionale, dunque, con la anzidetta pronuncia, ha avuto modo di chiarire che il filtro selettivo richiesto, ai fini dell’azionabilità della procedura di repressione, è ben meno gravoso di quello richiesto (ex art. 19 Stat. Lav.) per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali e indi per l’accesso alla legislazione di sostegno.
Appare, allora, evidente che svincolare il requisito della nazionalità, richiesto dall’articolo 28 S.L., dalla stipulazione di contratti collettivi, non può che equivalere al riconoscimento che gli articoli 19 e 28 Stat. Lav. hanno distinti ambiti di operatività e che, indi, l’accesso alla speciale tutela, per la repressione della condotta antisindacale, è basato su un filtro selettivo diverso da quello richiesto dall’articolo 19 S.L..
L’anzidetto principio, oltre ad essere stato reiteratamente affermato in una alluvionale produzione giurisprudenziale, è stato recentemente ribadito anche dalla Corte di nomofilachia[2], la quale, sul punto, ha affermato che:
“su tale questione gli orientamenti espressi sono stati univoci nel senso di ritenere sussistente la legittimazione attiva di sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, … essendo determinante il requisito della diffusione del sindacato (anche monocategoriale) sul territorio nazionale, dovendosi però intendere tale diffusione nel senso che basta lo svolgimento di effettiva azione sindacale (non su tutto ma) su gran parte del territorio nazionale (Cass. 17 ottobre 1990 n. 10114; 20 aprile 2002 n. 5765; 07 agosto 2002 n. 11833; 26 febbraio 2004 n. 3917; 03 giugno 2004 n. 10616; 10 gennaio 2005 n. 269). … Sulla specifica questione della legittimazione delle organizzazioni che non abbiano limitato ad una sola predeterminata categoria professionale il fine della loro attività, e, quindi, mirino ad associare e tutelare i lavoratori in genere, la soluzione, in linea di principio, deve essere positiva. In tal senso depongono la mancanza di elementi normativi testuali di segno contrario, la libertà delle associazioni sindacali di scegliere le modalità organizzative secondo cui operare, e, infine, la circostanza che la mancanza di un’unica categoria di riferimento non esclude che, in via presuntiva e tendenziale, la dimensione nazionale assicuri l’operare di scelte, nell’azione sindacale, maggiormente consapevoli e razionali e, quindi, con maggiori probabilità, funzionali alla protezione degli interessi dei lavoratori. … Il carattere intercategoriale dell’associazione sindacale, tuttavia, qualche specifico riflesso può avere in tema di accertamento di adeguata diffusione della medesima sul territorio nazionale. Sulla base del principio, ricavabile dalla stessa giurisprudenza costituzionale sopra citata, secondo cui, ai fini della legittimazione al ricorso ex art. 28 S.L., è necessaria la presenza di un sindacato dotato di un minimo di rappresentatività non limitata ad una dimensione locale, ma diffusa nel territorio nazionale, la dove si rinviene la categoria di riferimento del sindacato stesso, in linea di principio i limiti minimi di presenza sul territorio di un sindacato intercategoriale devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti a un’associazione di categoria. Tuttavia, in sede applicativa, tale affermazione deve essere correlata con il principio secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività. …”
Alla luce del predetto principio, ribadito dalla Corte a Sezioni Unite, sembra che il filtro selettivo richiesto dall’articolo 28 Stat. Lav. risulti essere soddisfatto, lì ove, l’organizzazione sindacale, diffusa sul territorio nazionale, svolga un’attività sindacale estesa su buona parte del territorio nazionale: attività sindacale, che non identificandosi e non potendosi identificare esclusivamente nella stipulazione di un contratto collettivo, ben può, dunque, svilupparsi, per la sua poliedricità, in una molteplicità di forme, tra cui l’indizione di scioperi generali o nazionali di categoria, l’indizione di assemblee, la presentazione di piattaforme rivendicative, l’organizzazioni di convegni, la presentazioni di note ed osservazione alla Commissione di Garanzia ecc.
Principi questi che costituiscono orientamento più che consolidato, tanto e che, recentemente, la Corte di Cassazione[3] ha avuto modo di ribadire che la legittimatio ad agendum compete ad associazioni sindacali diffuse sul territorio e che svolgono attività sindacale, non su tutto ma su buona parte del territorio nazionale, “per la promozione degli interessi dei lavoratori, in favore dei quali si dirige, sul piano locale, l’azione dei singoli organismi territoriali”.
A tali sedimentati principi, a cui si presta integrale adesione, si contrappone un orientamento che ritiene[4] che “espressione nazionale dell’attività sindacale è la stipula di contratti collettivi di quel livello”.
Si tratta di un orientamento che sembra in contrasto con i principi elaborati, dapprima, dalla Corte Costituzionale e, successivamente, ribaditi dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite[5].
Infatti, l’asserire che il requisito della nazionalità si identifica nella stipulazione con un contratto collettivo nazionale equivale a fornire un’interpretazione dei criteri selettivi di cui all’articolo 28 Stat. Lav. ben più rigorosi di quelli attualmente richiesti dall’articolo 19 della 300-1970, essendo sufficiente, ai fini della costituzione della r.s.a., la sottoscrizione di un contratto di secondo livello.
Ciò, evidentemente, costituisce un principio antitetico a quello, consacrato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, “secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività.”
Tanto è che due pronunce della Corte di Cassazione[6], tra cui quella in apertura, pur ponendosi nello stesso solco della anzidetta pronuncia, hanno cercato di correggere il predetto orientamento, includendo nella categoria dei contratti collettivi utili, ai fini della legittimazione, anche quelli gestionali (seppur un diverso orientamento pervenga ad escluderne la natura di fonte collettiva): “al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale assume rilievo, più che la diffusione della articolazione territoriale delle strutture dell’associazione, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale” ovvero “di un contratto collettivo gestionale … in quanto l’imporre, o contribuire con la propria condotta negoziale a rendere applicabile su tutto il territorio del paese, le regole dettate da detto contratto è indice di una incisiva e concreta effettività della sua specifica forza negoziale … E’ stato statuito da questa Corte di Cassazione che le regole contemplate negli accordi gestionali sono volte a delimitare l’ambito del potere del datore di lavoro concorrendo a disciplinare importanti aspetti del rapporto di lavoro … Detti accordi, inoltre … esprimono la capacità negoziale delle organizzazioni sindacali firmatarie, che è il presupposto per il riconoscimento del diritto di queste a costituire r.s.a. (così Cass. 24 settembre 2004 n. 19271) ”.
Pur tuttavia, appare evidente che tale orientamento si presta alle stesse obiezioni del suo precedente, in quanto esso si pone in contrasto con il principio elaborato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, sostanziandosi nel rendere il requisito di accesso alla procedura, ex art. 28 Stat. Lav., ben più gravoso del filtro richiesto dall’articolo 19 Stat. Lav..
In conclusione, riepilogati i diversi orientamenti, si ritiene, per le ragioni esplicitate, che il principio elaborato dalla Corte di Cassazione a sezione unite appaia preferibile essendo ben aderente all’osservazioni avanzate dalla Corte Costituzionale e allo stesso testo normativo.
Retelegale Roma V. Caponera

[1] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334

[2] Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269
[3] C. Cass. 06 giugno 2006 n. 13250; 14 marzo 2006 n. 5506
[4] C. Cass. 23 marzo 2006 n. 6429

[5] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334; Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269

[6] C. Cass. 11 gennaio 2008 n. 520; 09 gennaio 2008 n. 212. Entrambe redatte dal medesimo estensore.
sabato 19 giugno 2010
Il processo del lavoro è lungo ed estenuante. Le lungaggini processuali minano l'esistenza stessa dei diritti. Normalmente dal deposito della domanda in Tribunale e la prima udienza passano circa 3 o 4 mesi. In alcuni casi i mesi diventano 5 o 6.
Il nostro ordinamento ha inventato un istituto, quello del Tentativo obbligatorio di conciliazione, che aumento ancora di più i tempi processuali. Dalla data di inoltro della domanda alla DPL e quella di convocazione delle parti per l relativo espletamento del tentativo di conciliazione non devono trascorrere più di 60 giorni nel settore privato e 90 in quello pubblico. La domanda che ci poniamo è: è possibile contemporaneamente depositare il ricorso in tribunale ed inviare la richiesta di tentativo di conciliazione alla Direzione provinciale del Lavoro? Che cosa succede in questo caso?
Poiché altri più autorevoli del sottoscritto avvocato si sono espressi, è bene invocare qui il loro contributo.
In materia di processo del lavoro, il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, previsto dall'art. 412 bis c.p.c. quale condizione di procedibilità della domanda, deve essere eccepito dal convenuto nella memoria difensiva di cui all'art. 416 c.p.c. e può essere rilevato d'ufficio dal giudice, purché non oltre l'udienza di cui all'art. 420 c.p.c., con la conseguenza che ove l'improcedibilità dell'azione, anche se segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine, la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di giudizio.” Cassazione civile sez. lav. 14 ottobre 2009 n. 21797 Inpdap C. D'Amato e altro in Guida al diritto 2010, 1, 51 (s.m.).
Premesso che le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all'esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall'art. 24 cost., non possono essere interpretate in senso estensivo, deve ritenersi che, ai fini dell'espletamento del tentativo di conciliazione , il quale ai sensi dell'art. 412 c.p.c. costituisce condizione di procedibilità della domanda, sia sufficiente, in base a quanto disposto dall'art. 410 bis c.p.c., la presentazione della richiesta all'organo istituito presso le Direzioni provinciali del lavoro , considerandosi comunque espletato il tentativo di conciliazione decorsi sessanta giorni dalla presentazione, a prescindere dall'avvenuta comunicazione della richiesta stessa alla controparte. Tale comunicazione è invece necessaria, ai sensi dell'art. 410, comma 2, c.p.c., perché si verifichi la interruzione della prescrizione e la sospensione, per il periodo ivi indicato, di ogni termine di decadenza.” Cassazione civile sez. lav. 21 gennaio 2004 n. 967 Bizzanelli C. Garlisi in Giust. civ. Mass.2004, 1, Notiziario giur. Lav. 2004, 370.
Ergo, non vi possono essere dubbi circa la natura del tentativo di conciliazione che NON E' condizione di ammissibilità e NON E' condizione di proponibilità della domanda ma E' condizione di procedibilità.
La sua funzione è, come è noto, quella di ridurre il contenzioso in materia di lavoro.
Il contenzioso in materia di lavoro, come è abbastanza agevole intuire, diminuisce se le parti rispondono alla convocazione della direzione provinciale del lavoro, si rendono disponibili ad una soluzione bonaria, trovano l'accordo e lo sottoscrivono. Esserci fisicamente, dunque, presenziare a quell'incontro, pare essere condizione indefettibile perché questo strumento possa funzionare. Mettiamo il caso frequente della parte datoriale che non si presenta al Tentativo di conciliazione promosso dal lavoratore che contemporaneamente ha depositato il ricorso in tribunale e poi chieda l'improcedibilità dell'azione a causa del mancato rispetto dei termini di cui al terzo comma dell'art. 412 bis c.p.c. Ciò, come è noto, avrebbe come conseguenza quella di sospendere il giudizio per concedere alle parti un termine per l'espletamento del tentativo stesso. Il fatto è, tuttavia, che quella convocazione c'è già stata e quella commissione si è già riunita ed ha redatto un verbale nel quale si dava atto della presenza del lavoratore, del suo difensore e dell'ASSENZA del datore di lavoro. Da questo comportamento concludente si deve obbligatoriamente dedurre che il datore di lavoro non ha alcuna intenzione di conciliare la causa.
Quindi anche i muri, per dirlo con una espressione idiomatica, sono consapevoli del fatto che datore di lavoro e lavoratore non intendono o non sono in grado o non possono conciliare questa controversia.
Quindi, ci si chiede: di che cosa stiamo parlando? Della necessità di sospendere un procedimento per adire di nuovo la Direzione provinciale del lavoro affinché convochi la commissione e le parti per assistere ancora una volta all'assenza della datrice di lavoro?
Tentiamo di interpretare nel suo complesso l'art. 412 bis c.p.c. che recita “L'espletamento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda.”. Questo è il primo comma che non risulta interpretabile e descrive sin da subito una traiettoria ermeneutica chiara non distinguendo (volutamente) tra promozione ed espletamento ma, al contrario, riferendosi unicamente all'espletamento del tentativo di conciliazione. Il secondo comma si riferisce alle decadenze processuali e non ci interessa nel caso di specie. Vediamo il terzo comma.
“Il giudice, ove rilevi che non è stato promosso il tentativo di conciliazione ovvero che la domanda giudiziale è stata presentata prima dei sessanta giorni dalla promozione del tentativo stesso, sospende il giudizio e fissa alle parti il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazione”
A chi scrive pare assolutamente incontrovertibile che questo comma, che arriva dopo che è stato espresso un principio in maniera lapidaria al comma principale ed iniziale, si riferisce comunque al caso in cui il tentativo di conciliazione non sia stato espletato per la mancata convocazione della parti dinanzi alla Direzione provinciale del Lavoro. Questo, purtroppo, è un caso molto frequente che in questa norma trova una sua completa disciplina. Le Direzioni Provinciali del Lavoro spesso sono oberate e congestionate al punto da non poter rispettare i termini previsti dalla legge per la convocazione della parti al fine di espletare il tentativo di conciliazione. La legge, quindi ha previsto che la condizione di procedibilità si realizzi comunque decorsi 60 giorni dalla promozione del tentativo stesso. Quindi, ricapitolando, questa norma dice che, tenuto fermo il principio secondo il quale l'espletamento del tentativo di conciliazione è condizione di procedibilità dell'azione (comma 1), se la parte agisce in giudizio prima che siano decorsi 60 giorni SENZA che il tentativo di conciliazione sia stato espletato o, addirittura, senza averlo mai promosso, la relativa domanda debba essere dichiarata improcedibile con concessione dei termini di cui al medesimo comma. Questa è l'unica interpretazione sistematica possibile.
L'interpretazione opposta conduce a delle aberrazioni sistemiche al limite del ridicolo che, oltretutto, non solo non consentirebbero all'istituto in esame di ridurre il contenzioso in materia di diritto del lavoro ma addirittura determinerebbero un appesantimento dell'intero meccanismo.
Se utilizziamo ogni comma senza ricordarci che quel comma vive dentro un articolo e che quell'articolo vive dentro un codice, andando incontro ad errori di interpretazione sostenendo tesi possibili ma sbagliate intente a seguire una “logica” capziosa, strumentale e inutilmente formalista. Perché c'è sempre quel primo comma che toglie ogni dubbio circa la reale natura dell'istituto in parola.
Per cui è interessante capire, e qui il difensore può e deve utilizzare la sua esperienza, tenendo conto dei tempi di convocazione della locale DPL e dei tempi di fissazione dell'udienza da parte del Tribunale, qual'è il caso in cui è possibile promuovere la causa e il tentativo di conciliazione contemporaneamente. Le conseguenze sono molto importanti. Se la DPL mi fissa il Tentativo di Conciliazione, ad esempio, il 20 di settembre ed il giudice nel frattempo ha fissato l'udienza per il 10 di ottobre, il datore di lavoro avrà ancor di più interesse a definire la vicenda dovendosi confrontare con una scadenza ravvicinata che determina costi e rischi elevati.
E' evidente che quella che propongo è una linea difensiva che deve trovare il consenso del giudice ma sono sicuro che spingendo su questo punto con le argomentazioni sopra prospettate, troveremo il placet della giurisprudenza in poco tempo e avremmo contribuito alla riduzione dei tempi processuali senza intervenire sul dato normativo.
Marco Guercio
Avvocato

Retelegale Live News

NOTE LEGALI

il blog di retelegale raccoglie gli interventi, gli scritti e le opinioni che ciascun socio pubblica autonomamente sul blog della propria sede periferica di appartenenza.
Le opinioni espresse da ciascun associato sia sul blog dell'associazione (retelegale.blogspot) sia sui blog delle
varie sedi periferiche (per es. retelegalelivorno.blogspot) non sono riferibili alla generalità degli associati né all'associazione e
non rappresenta l'opinione della generalità degli associati né dell'associazione. Le pubblicazioni, gli interventi, gli scritti e le opinioni pubblicate da ciascun associato sono e restano di competenze dell'associato che le pubblica il quale si assume ogni responsabilità per quanto pubblicato, per il contenuto dei propri scritti ed interventi e per le opinioni espresse. I blog dell'associazione ed i blog di ciascuna sede sono aggiornati senza alcuna periodicità da parte
degli associati, ogni pubblicazione, scritto ed intervento rappresenta l'opinione ed il pensiero unicamente dell'associato che la pubblica e l'insieme delle
pubblicazioni non costituisce testata giornalistica

Logo

Logo

Aggiumgi RSS a Google

Add to iGoogle

Tweet