Lettori fissi

RETELEGALE FIRENZE

venerdì 25 giugno 2010
Con le sentenze in esame la Corte di Cassazione a sezioni unite ribadisce alcuni importanti principi:
1) che il diritto all'indennità di occupazione matura al compimento di ogni singola annualità, per cui il parametro di riferimento, è quello del valore venale attuale del bene, passibile nel tempo di variazioni dipendenti dallo specifico mercato immobiliare di riferimento. "Ne consegue che, se la determinazione monetaria del valore venale de bene abbia subito variazioni apprezzabili nello sviluppo delle occupazione legittima e registrabili alle singole consecutive cadenze annuali, ad ogni scadenza dovrà procedersi al calcolo virtuale della indennità di espropriazione fondata anche sul valore venale del bene, come tale soggetto a variazioni nel tempo. Tuttavia, la diversità tra la data di effettiva valutazione dell'immobile e quella di maturazione del diritto a percepire l'indennizzo per la scadenza dell'annualità di occupazione legittima non rende censurabile la liquidazione di detto indennizzo, ove non si dimostri un apprezzabile divario del valore del bene in tali rispettivi momenti" (Cass., sez. 1^, 27 luglio 2007, n. 16744, m. 600839, Cass., sez. 1^, 16 settembre 2009, n. 19972, m. 610574).
2) che l'edificabilità del fondo deve necessariamente essere commisurata ad indici "medi" di fabbricabilità riferiti (o riferibili) all'intera zona omogenea, al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato, nel senso che, ove non si ritenga di stimare il terreno ricorrendo a criteri comparativi basati sul valore di aree omogenee, l'adozione del metodo analitico - ricostruttivo comporta che l'accertamento dei volumi realizzabili sull'area non possa basarsi sull'indice fondiario di edificabilità (che è riferito alle singole aree specificamente destinate all'edificazione privata) e che, invece, postulando l'esercizio concreto dello ius aedificandi che l'area sia urbanizzata e, che si tenga conto dell'incidenza degli spazi all'uopo riservati ad infrastrutture e servizi a carattere generale, si debba prescindere come dal fatto che l'area sia (eventualmente) destinata ad usi che non comportano specifica realizzazione di opere edilizie (verde pubblico, viabilità, parcheggi) non potendo l'edificabilità essere vanificata dalla utilizzabilità non strettamente residenziale, così dalla maggiore o minore fabbricabilità che il fondo venga a godere o subire per effetto delle disposizioni di piano attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni ovvero servizi ed infrastrutture, di guisa che tutti i terreni espropriati in uno stesso ambito zonale vengano a percepire la stessa indennità, calcolata su una valutazione del fondo da formulare sulla potenzialità edificatoria "media" di tutto il comprensorio, ovvero dietro applicazione di un indice di fabbricabilità (territoriale che sia frutto del rapporto tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato" (Cass., sez. 1^, 29 novembre 2006, n. 25363, m. 593279, Cass., sez. un., 21 marzo 2001, n. 125, m. 544 961, Cass., sez. 1^, 16 maggio 2006, n. 11477, m. 590405, Cass., sez. 1^, 16 giugno 2006, n. 13958, m. 590694).
3) che gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria non essendo sufficiente la sola presentazione dell'istanza relativa. Pertanto non si applica nella liquidazione il criterio del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste, ma si valuta la sola area, si da evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere anche indirettamente ad accrescere il valore del fondo" (Cass., sez. 1^, 14 dicembre 2007, n. 26260, m. 600949). Ne "consegue che, ove si tratti di immobile costruito abusivamente, ed in relazione al quale sia stata successivamente avanzata istanza di condono edilizio, ai fini della determinazione della condizione urbanistica dello stesso, necessaria per stabilirne il reale valore di mercato, e, quindi, determinare la indennità di occupazione legittima, si richiede l'accertamento della circostanza dell'avvenuto rilascio della concessione in sanatoria, non essendo sufficiente la sola considerazione della presentazione della predetta istanza" (Cass., sez., un., 22 luglio 1999, n. 499, m. 528864). In conclusione ai proprietari non compete alcuna indennità, né di espropriazione né di occupazione legittima, per le opere abusivamente realizzate, se all'epoca in cui fu decretata l'espropriazione dei fondi sui quali insistono, non erano state ancora condonate.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
lunedì 21 giugno 2010
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 04 marzo 2010 n. 5209 (in Guida al Lavoro n. 18-2010), ha affermato che: “In tema di rappresentatività sindacale il criterio legale dell’effettività dell’azione sindacale equivale al riconoscimento della capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale nella regolamentazione dei rapporti lavorativi. Ne consegue che al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale –richiesto per legittimare l’azione di repressione antisindacale ex art. 28 Stat. Lav.- assume rilievo, più che la diffusione delle articolazioni territoriali, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi, anche gestionali, che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e attestano un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio economico dell’intero paese …”.
Il principio elaborato dalla Corte di Legittimità, nella predetta pronuncia, non appare ad opinione di chi scrive convincente.
Alla luce di tale mancata adesione, si rende, allora, opportuno chiarire le ragioni di critica.
* ° *
Il Giudice delle Leggi [1], in anni lontani, ebbe modo di precisare che “la garanzia del libero sviluppo di una normale dialettica sindacale è assicurata dallo Statuto, non solo attraverso il divieto dei sindacati di comodo (art. 17), ma anche e soprattutto attraverso il fondamentale strumento di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro previsto dall’articolo 28, il cui impiego presuppone una dimensione organizzativa –quella nazionale- che, per non essere legata …. alla stipulazione di contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche alle organizzazioni che dissentono dalle politiche sindacali maggioritarie perseguite a quel livello. …”.
La Corte Costituzionale, dunque, con la anzidetta pronuncia, ha avuto modo di chiarire che il filtro selettivo richiesto, ai fini dell’azionabilità della procedura di repressione, è ben meno gravoso di quello richiesto (ex art. 19 Stat. Lav.) per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali e indi per l’accesso alla legislazione di sostegno.
Appare, allora, evidente che svincolare il requisito della nazionalità, richiesto dall’articolo 28 S.L., dalla stipulazione di contratti collettivi, non può che equivalere al riconoscimento che gli articoli 19 e 28 Stat. Lav. hanno distinti ambiti di operatività e che, indi, l’accesso alla speciale tutela, per la repressione della condotta antisindacale, è basato su un filtro selettivo diverso da quello richiesto dall’articolo 19 S.L..
L’anzidetto principio, oltre ad essere stato reiteratamente affermato in una alluvionale produzione giurisprudenziale, è stato recentemente ribadito anche dalla Corte di nomofilachia[2], la quale, sul punto, ha affermato che:
“su tale questione gli orientamenti espressi sono stati univoci nel senso di ritenere sussistente la legittimazione attiva di sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, … essendo determinante il requisito della diffusione del sindacato (anche monocategoriale) sul territorio nazionale, dovendosi però intendere tale diffusione nel senso che basta lo svolgimento di effettiva azione sindacale (non su tutto ma) su gran parte del territorio nazionale (Cass. 17 ottobre 1990 n. 10114; 20 aprile 2002 n. 5765; 07 agosto 2002 n. 11833; 26 febbraio 2004 n. 3917; 03 giugno 2004 n. 10616; 10 gennaio 2005 n. 269). … Sulla specifica questione della legittimazione delle organizzazioni che non abbiano limitato ad una sola predeterminata categoria professionale il fine della loro attività, e, quindi, mirino ad associare e tutelare i lavoratori in genere, la soluzione, in linea di principio, deve essere positiva. In tal senso depongono la mancanza di elementi normativi testuali di segno contrario, la libertà delle associazioni sindacali di scegliere le modalità organizzative secondo cui operare, e, infine, la circostanza che la mancanza di un’unica categoria di riferimento non esclude che, in via presuntiva e tendenziale, la dimensione nazionale assicuri l’operare di scelte, nell’azione sindacale, maggiormente consapevoli e razionali e, quindi, con maggiori probabilità, funzionali alla protezione degli interessi dei lavoratori. … Il carattere intercategoriale dell’associazione sindacale, tuttavia, qualche specifico riflesso può avere in tema di accertamento di adeguata diffusione della medesima sul territorio nazionale. Sulla base del principio, ricavabile dalla stessa giurisprudenza costituzionale sopra citata, secondo cui, ai fini della legittimazione al ricorso ex art. 28 S.L., è necessaria la presenza di un sindacato dotato di un minimo di rappresentatività non limitata ad una dimensione locale, ma diffusa nel territorio nazionale, la dove si rinviene la categoria di riferimento del sindacato stesso, in linea di principio i limiti minimi di presenza sul territorio di un sindacato intercategoriale devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti a un’associazione di categoria. Tuttavia, in sede applicativa, tale affermazione deve essere correlata con il principio secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività. …”
Alla luce del predetto principio, ribadito dalla Corte a Sezioni Unite, sembra che il filtro selettivo richiesto dall’articolo 28 Stat. Lav. risulti essere soddisfatto, lì ove, l’organizzazione sindacale, diffusa sul territorio nazionale, svolga un’attività sindacale estesa su buona parte del territorio nazionale: attività sindacale, che non identificandosi e non potendosi identificare esclusivamente nella stipulazione di un contratto collettivo, ben può, dunque, svilupparsi, per la sua poliedricità, in una molteplicità di forme, tra cui l’indizione di scioperi generali o nazionali di categoria, l’indizione di assemblee, la presentazione di piattaforme rivendicative, l’organizzazioni di convegni, la presentazioni di note ed osservazione alla Commissione di Garanzia ecc.
Principi questi che costituiscono orientamento più che consolidato, tanto e che, recentemente, la Corte di Cassazione[3] ha avuto modo di ribadire che la legittimatio ad agendum compete ad associazioni sindacali diffuse sul territorio e che svolgono attività sindacale, non su tutto ma su buona parte del territorio nazionale, “per la promozione degli interessi dei lavoratori, in favore dei quali si dirige, sul piano locale, l’azione dei singoli organismi territoriali”.
A tali sedimentati principi, a cui si presta integrale adesione, si contrappone un orientamento che ritiene[4] che “espressione nazionale dell’attività sindacale è la stipula di contratti collettivi di quel livello”.
Si tratta di un orientamento che sembra in contrasto con i principi elaborati, dapprima, dalla Corte Costituzionale e, successivamente, ribaditi dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite[5].
Infatti, l’asserire che il requisito della nazionalità si identifica nella stipulazione con un contratto collettivo nazionale equivale a fornire un’interpretazione dei criteri selettivi di cui all’articolo 28 Stat. Lav. ben più rigorosi di quelli attualmente richiesti dall’articolo 19 della 300-1970, essendo sufficiente, ai fini della costituzione della r.s.a., la sottoscrizione di un contratto di secondo livello.
Ciò, evidentemente, costituisce un principio antitetico a quello, consacrato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, “secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività.”
Tanto è che due pronunce della Corte di Cassazione[6], tra cui quella in apertura, pur ponendosi nello stesso solco della anzidetta pronuncia, hanno cercato di correggere il predetto orientamento, includendo nella categoria dei contratti collettivi utili, ai fini della legittimazione, anche quelli gestionali (seppur un diverso orientamento pervenga ad escluderne la natura di fonte collettiva): “al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale assume rilievo, più che la diffusione della articolazione territoriale delle strutture dell’associazione, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale” ovvero “di un contratto collettivo gestionale … in quanto l’imporre, o contribuire con la propria condotta negoziale a rendere applicabile su tutto il territorio del paese, le regole dettate da detto contratto è indice di una incisiva e concreta effettività della sua specifica forza negoziale … E’ stato statuito da questa Corte di Cassazione che le regole contemplate negli accordi gestionali sono volte a delimitare l’ambito del potere del datore di lavoro concorrendo a disciplinare importanti aspetti del rapporto di lavoro … Detti accordi, inoltre … esprimono la capacità negoziale delle organizzazioni sindacali firmatarie, che è il presupposto per il riconoscimento del diritto di queste a costituire r.s.a. (così Cass. 24 settembre 2004 n. 19271) ”.
Pur tuttavia, appare evidente che tale orientamento si presta alle stesse obiezioni del suo precedente, in quanto esso si pone in contrasto con il principio elaborato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, sostanziandosi nel rendere il requisito di accesso alla procedura, ex art. 28 Stat. Lav., ben più gravoso del filtro richiesto dall’articolo 19 Stat. Lav..
In conclusione, riepilogati i diversi orientamenti, si ritiene, per le ragioni esplicitate, che il principio elaborato dalla Corte di Cassazione a sezione unite appaia preferibile essendo ben aderente all’osservazioni avanzate dalla Corte Costituzionale e allo stesso testo normativo.
Retelegale Roma V. Caponera

[1] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334

[2] Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269
[3] C. Cass. 06 giugno 2006 n. 13250; 14 marzo 2006 n. 5506
[4] C. Cass. 23 marzo 2006 n. 6429

[5] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334; Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269

[6] C. Cass. 11 gennaio 2008 n. 520; 09 gennaio 2008 n. 212. Entrambe redatte dal medesimo estensore.
sabato 19 giugno 2010
Il processo del lavoro è lungo ed estenuante. Le lungaggini processuali minano l'esistenza stessa dei diritti. Normalmente dal deposito della domanda in Tribunale e la prima udienza passano circa 3 o 4 mesi. In alcuni casi i mesi diventano 5 o 6.
Il nostro ordinamento ha inventato un istituto, quello del Tentativo obbligatorio di conciliazione, che aumento ancora di più i tempi processuali. Dalla data di inoltro della domanda alla DPL e quella di convocazione delle parti per l relativo espletamento del tentativo di conciliazione non devono trascorrere più di 60 giorni nel settore privato e 90 in quello pubblico. La domanda che ci poniamo è: è possibile contemporaneamente depositare il ricorso in tribunale ed inviare la richiesta di tentativo di conciliazione alla Direzione provinciale del Lavoro? Che cosa succede in questo caso?
Poiché altri più autorevoli del sottoscritto avvocato si sono espressi, è bene invocare qui il loro contributo.
In materia di processo del lavoro, il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, previsto dall'art. 412 bis c.p.c. quale condizione di procedibilità della domanda, deve essere eccepito dal convenuto nella memoria difensiva di cui all'art. 416 c.p.c. e può essere rilevato d'ufficio dal giudice, purché non oltre l'udienza di cui all'art. 420 c.p.c., con la conseguenza che ove l'improcedibilità dell'azione, anche se segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine, la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di giudizio.” Cassazione civile sez. lav. 14 ottobre 2009 n. 21797 Inpdap C. D'Amato e altro in Guida al diritto 2010, 1, 51 (s.m.).
Premesso che le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all'esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall'art. 24 cost., non possono essere interpretate in senso estensivo, deve ritenersi che, ai fini dell'espletamento del tentativo di conciliazione , il quale ai sensi dell'art. 412 c.p.c. costituisce condizione di procedibilità della domanda, sia sufficiente, in base a quanto disposto dall'art. 410 bis c.p.c., la presentazione della richiesta all'organo istituito presso le Direzioni provinciali del lavoro , considerandosi comunque espletato il tentativo di conciliazione decorsi sessanta giorni dalla presentazione, a prescindere dall'avvenuta comunicazione della richiesta stessa alla controparte. Tale comunicazione è invece necessaria, ai sensi dell'art. 410, comma 2, c.p.c., perché si verifichi la interruzione della prescrizione e la sospensione, per il periodo ivi indicato, di ogni termine di decadenza.” Cassazione civile sez. lav. 21 gennaio 2004 n. 967 Bizzanelli C. Garlisi in Giust. civ. Mass.2004, 1, Notiziario giur. Lav. 2004, 370.
Ergo, non vi possono essere dubbi circa la natura del tentativo di conciliazione che NON E' condizione di ammissibilità e NON E' condizione di proponibilità della domanda ma E' condizione di procedibilità.
La sua funzione è, come è noto, quella di ridurre il contenzioso in materia di lavoro.
Il contenzioso in materia di lavoro, come è abbastanza agevole intuire, diminuisce se le parti rispondono alla convocazione della direzione provinciale del lavoro, si rendono disponibili ad una soluzione bonaria, trovano l'accordo e lo sottoscrivono. Esserci fisicamente, dunque, presenziare a quell'incontro, pare essere condizione indefettibile perché questo strumento possa funzionare. Mettiamo il caso frequente della parte datoriale che non si presenta al Tentativo di conciliazione promosso dal lavoratore che contemporaneamente ha depositato il ricorso in tribunale e poi chieda l'improcedibilità dell'azione a causa del mancato rispetto dei termini di cui al terzo comma dell'art. 412 bis c.p.c. Ciò, come è noto, avrebbe come conseguenza quella di sospendere il giudizio per concedere alle parti un termine per l'espletamento del tentativo stesso. Il fatto è, tuttavia, che quella convocazione c'è già stata e quella commissione si è già riunita ed ha redatto un verbale nel quale si dava atto della presenza del lavoratore, del suo difensore e dell'ASSENZA del datore di lavoro. Da questo comportamento concludente si deve obbligatoriamente dedurre che il datore di lavoro non ha alcuna intenzione di conciliare la causa.
Quindi anche i muri, per dirlo con una espressione idiomatica, sono consapevoli del fatto che datore di lavoro e lavoratore non intendono o non sono in grado o non possono conciliare questa controversia.
Quindi, ci si chiede: di che cosa stiamo parlando? Della necessità di sospendere un procedimento per adire di nuovo la Direzione provinciale del lavoro affinché convochi la commissione e le parti per assistere ancora una volta all'assenza della datrice di lavoro?
Tentiamo di interpretare nel suo complesso l'art. 412 bis c.p.c. che recita “L'espletamento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda.”. Questo è il primo comma che non risulta interpretabile e descrive sin da subito una traiettoria ermeneutica chiara non distinguendo (volutamente) tra promozione ed espletamento ma, al contrario, riferendosi unicamente all'espletamento del tentativo di conciliazione. Il secondo comma si riferisce alle decadenze processuali e non ci interessa nel caso di specie. Vediamo il terzo comma.
“Il giudice, ove rilevi che non è stato promosso il tentativo di conciliazione ovvero che la domanda giudiziale è stata presentata prima dei sessanta giorni dalla promozione del tentativo stesso, sospende il giudizio e fissa alle parti il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazione”
A chi scrive pare assolutamente incontrovertibile che questo comma, che arriva dopo che è stato espresso un principio in maniera lapidaria al comma principale ed iniziale, si riferisce comunque al caso in cui il tentativo di conciliazione non sia stato espletato per la mancata convocazione della parti dinanzi alla Direzione provinciale del Lavoro. Questo, purtroppo, è un caso molto frequente che in questa norma trova una sua completa disciplina. Le Direzioni Provinciali del Lavoro spesso sono oberate e congestionate al punto da non poter rispettare i termini previsti dalla legge per la convocazione della parti al fine di espletare il tentativo di conciliazione. La legge, quindi ha previsto che la condizione di procedibilità si realizzi comunque decorsi 60 giorni dalla promozione del tentativo stesso. Quindi, ricapitolando, questa norma dice che, tenuto fermo il principio secondo il quale l'espletamento del tentativo di conciliazione è condizione di procedibilità dell'azione (comma 1), se la parte agisce in giudizio prima che siano decorsi 60 giorni SENZA che il tentativo di conciliazione sia stato espletato o, addirittura, senza averlo mai promosso, la relativa domanda debba essere dichiarata improcedibile con concessione dei termini di cui al medesimo comma. Questa è l'unica interpretazione sistematica possibile.
L'interpretazione opposta conduce a delle aberrazioni sistemiche al limite del ridicolo che, oltretutto, non solo non consentirebbero all'istituto in esame di ridurre il contenzioso in materia di diritto del lavoro ma addirittura determinerebbero un appesantimento dell'intero meccanismo.
Se utilizziamo ogni comma senza ricordarci che quel comma vive dentro un articolo e che quell'articolo vive dentro un codice, andando incontro ad errori di interpretazione sostenendo tesi possibili ma sbagliate intente a seguire una “logica” capziosa, strumentale e inutilmente formalista. Perché c'è sempre quel primo comma che toglie ogni dubbio circa la reale natura dell'istituto in parola.
Per cui è interessante capire, e qui il difensore può e deve utilizzare la sua esperienza, tenendo conto dei tempi di convocazione della locale DPL e dei tempi di fissazione dell'udienza da parte del Tribunale, qual'è il caso in cui è possibile promuovere la causa e il tentativo di conciliazione contemporaneamente. Le conseguenze sono molto importanti. Se la DPL mi fissa il Tentativo di Conciliazione, ad esempio, il 20 di settembre ed il giudice nel frattempo ha fissato l'udienza per il 10 di ottobre, il datore di lavoro avrà ancor di più interesse a definire la vicenda dovendosi confrontare con una scadenza ravvicinata che determina costi e rischi elevati.
E' evidente che quella che propongo è una linea difensiva che deve trovare il consenso del giudice ma sono sicuro che spingendo su questo punto con le argomentazioni sopra prospettate, troveremo il placet della giurisprudenza in poco tempo e avremmo contribuito alla riduzione dei tempi processuali senza intervenire sul dato normativo.
Marco Guercio
Avvocato
lunedì 14 giugno 2010
Alcuni compagni di Terni segnalano l'iniziativa della locale Questura (ma a quanto consta non è la sola, è accaduto anche a Brescia) di pervenire prossimamente alla comunicazione di “avvisi orali” nei confronti di alcuni di loro.
L'istituto viene giustamente tacciato di “fascismo” per la sua innegabile valenza intimidatoria. L'avviso orale ex art. 3, L. n. 1423/ 54 novellato è infatti nulla più che una minaccia ai sensi dell'art. 612 c.p. (“chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito...”) scriminata da una norma di legge che invece la consente.
In concreto si tratta di una comunicazione, sovente scritta (!), con la quale il questore invita (suggerisce, consiglia, cerca di indurre) qualcuno a cambiare condotta, sulla base di una valutazione discrezionale dell'ufficio, sempre però basata su “elementi di fatto”, concetto giuridico estremamente scivoloso (diciamo pure viscido) che può configurarsi anche semplicemente in una ordinaria informativa Digos.
Il TAR Trento (sentenza n° 316/ 04) ha chiarito che l'avviso orale deve essere sempre eseguito oralmente e personalmente da parte del Questore. L'atto non può quindi essere delegato, come spesso succede.
L'avviso orale – che ha sostituito la precedente diffida ( a sua volta introdotta dopo la declaratoria di incostituzionalità dei “tre porcellini” ammonizione, foglio di via e confino) mantenendone però tutte le caratteristiche fattuali onde consentirne da parte del Questore il medesimo utilizzo a scopo preventivo/repressivo – costituisce presupposto necessario per la successiva emanazione di misure di prevenzione (altro bell'istituto di democrazia diretta). Questo simpatico marchingegno giuridico (avviso orale+ misura di sicurezza+ reato per la sua eventuale violazione) ha ben poco da spartire con le garanzie costituzionali in tema di responsabilità penale, certezza della pena e diritto di difesa ma è del tutto coerente ad un ordinamento giuridico che riesce a salvare dall'eccezione di costituzionalità i Centri d'Internamento Temporaneo (salvo poi scandalizzarsi per le leggi ad personam...). Si tratta di un tipico istituto giuridico da Stato di Polizia.
Una recente sentenza del Tar Campania (Sez. V, 11 ottobre 2007 / 17 ottobre 2007, n. 9587 (Pres. est. Onorato) consente di esaminare l'istituto un po' più da vicino e nella sua pratica attuazione.
Afferma il Tribunale che “l' avviso orale a tenere una condotta conforme alla legge - che rappresenta, invero, la misura più tenue tra quelle previste dalla legge n. 1423/1956 e costituisce la condicio sine qua non per l'eventuale applicazione delle misure di cui alla stessa legge - ben può essere motivato con riferimento anche a semplici sospetti a carico del destinatario, purché basati su elementi di fatto che ne facciano ragionevolmente ritenere l'appartenenza ad una delle menzionate categorie ex art. 1 L. 1423/1956.
Infatti, presupposto per l'emanazione dell'avviso in questione non è l'esistenza, secondo quanto sopra precisato, di "specifiche prove" sulla commissione di reati, essendo sufficienti, appunto, anche meri sospetti sugli elementi di fatto che, secondo la regola della logica e della ragionevolezza, inducano la competente Amministrazione a ritenere la sussistenza di quelle condizioni di pericolosità sociale che possano dar luogo all'applicazione di misure di prevenzione.
In altri termini, circa l'applicabilità da parte del Questore dell'avviso orale previsto dall'art. 4 L. 1423/1956, il giudizio sulla pericolosità sociale del soggetto avvisato non richiede la commissione di specifici reati, essendo sufficiente che l'Autorità di polizia sospetti semplicemente della presenza di elementi tali da ritenere la configurabilità, nel soggetto destinatario dell'avviso, di una personalità propensa a seguire particolari comportamenti antigiuridici”.
Le categorie di soggetti nei confronti dei quali la legge consente l'avviso orale sono le seguenti:

- coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi;

- coloro, che per la condotta ed il tenore di vita, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;
- coloro che, per il loro comportamento, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
A tali requisiti legali, ritenuti di per sé indice di pericolosità sociale meritevole di interesse preventivo da parte dei soggetti preposti alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, la giurisprudenza ha poi aggiunto quello della attualità delle condotte (da ultimo vedasi Trib. Monza – sez. misure di prevenzione - 12.3.10, in www.camerapenalemonza.it).
L'uso dell'avviso orale nei confronti di militanti antagonisti (variamente inteso il concetto e comprensivo quindi di tutti coloro che manifestano contro il sistema economico/ sociale capitalista/neoliberista) risulta francamente abnorme (la pericolosità sociale è concetto strettamente correlato all'attività criminosa in senso stretto) e quindi tale da potersi considerare un abuso. L'abuso del questore, che è pubblico ufficiale, non è atto indifferente, bensì produttivo di responsabilità penale ai sensi dell'art. 323c.p. configurando il reato di abuso d'ufficio.
Se infatti l'avviso orale viene pronunciato nei confronti di qualcuno che: a) prima ipotesi: non possa ritenersi abitualmente dedito a traffici illeciti; b) seconda ipotesi: non risulti avere una condotta o un tenore di vita basato su proventi di attività delittuose; c) terza ipotesi: non tenga un comportamento che faccia ritenere esser dedito alla commissione di reati verso minorenni, sanità, sicurezza e tranquillità sociale, si è di fronte ad un uso distorto e strumentale dell'istituto.
E' infatti evidente come il legislatore abbia inteso tenere sotto controllo quegli ambiti in cui il delitto, inteso come condotta antisociale per eccellenza, si sostanzia in una serie di comportamenti esteriori (appunto condotte, comportamenti, tenore di vita) tali da mettere l'autorità di p.s. sull'avviso. Ma la militanza politico/ sindacale, quand'anche condotta con metodi energici, non potrà mai costituire ragione sufficiente a giustificare l'avviso orale in assenza di altri elementi di fatto attuali riconducibili alle ipotesi previste dalla norma. Pare francamente improbabile (e certamente deprecabile dovesse capitare) che la militanza antagonista sfoci o possa sfociare in traffici illeciti o consentire un tenore di vita in qualche modo basato su proventi da delitto. Più delicata invece la valutazione con riferimento alla terza ipotesi, volutamente più generica e fumosa. Potrebbe infatti comprendere qualunque tipo di reato in quanto la delimitazione normativa che fa riferimento al soggetto o al bene giuridico offeso (minori, sanità, sicurezza e tranquillità sociale) è molto ampia. In particolare, potendosi escludere i reati nei confronti dei minori e della sanità, sono i concetti di sicurezza e soprattutto di tranquillità pubblica a costituire indubbi rischi e possibili strade per abusi dell'avviso orale. E' infatti ovvio che l'attività politico/ sindacale certamente turbi la tranquillità sociale (anzi, ha proprio quello scopo sovente), si pensi allo sciopero ma anche alle altre forme di conflitto lecito (manifestazione, presidio, volantinaggio) ma anche illecito (affissioni abusive, sit in, blocchi stradali, scontri con le forze dell'ordine). Ma è altrettanto vero che tale turbamento, essendo connaturato all'attività stessa che è non solo ammessa ma tutelata e favorita dall'ordinamento e dalla Costituzione, non può certo essere considerata alla stregua di un qualunque delitto comune e comunque certamente non in uno stato che si reputa democratico. Rientra infatti (o dovrebbe rientrare) nella normalità di una democrazia partecipativa in cui le tensioni e le lotte sociali possono anche sfociare in episodi di forte tensione e scontro ma che non possono per ciò solo essere impediti con la repressione, tanto meno preventiva, dovendosi invece accettare anche i rischi della dialettica democratica comunque sempre preferibili ad ogni forma di Stato di Polizia.
Quanto alla sicurezza è invece indubbio che si tratti di un parametro di riferimento delle condotte dei cittadini che l'ordinamento ha il dovere di considerare, ma anche in questo caso l'eventuale pericolosità sociale per la sicurezza non potrà ricavarsi solo ed esclusivamente dalle condotte di militanza politico/ sindacale siano esse lecite ma anche illecite (chiaramente i comportamenti illeciti saranno perseguiti in quanto tali). La motivazione politico/ sindacale, purchè genuina e non strumentale alla commissione di altri delitti, nel nostro ordinamento costituzionale, è di per sé incompatibile con qualunque avviso dell'autorità di p.s. E' incompatibile essendo un diritto di libertà fondamentale. E' corretto quindi affermare che il questore non si può permettere (non ne ha l'autorità) di procedere ad avviso orale nei confronti di chi svolge attività politico/ sindacale in quanto l'ordinamento deve sempre far prevalere la tutela dei diritti, che sono individuali e collettivi, alla libertà e attività sindacale, alla parola e all'opinione, a manifestare e a criticare le istituzioni e le loro scelte. Qualunque avviso orale rivolto a soggetti che esercitano questi diritti è un abuso e come tale deve essere sempre denunciato e perseguito.
Altra cosa sono i singoli reati commessi nello svolgimento delle attività di militanza politico/ sindacale, che l'ordinamento persegue in quanto tali. Com'è noto esistono anche specifiche fattispecie associative fatte apposta per reprimere proprio l'attività politico/ sindacale svolta al di fuori dei limiti posti dalla legge penale che ricomprendono persino condotte singolarmente e normalmente lecite. Si tratta di delitti introdotti nel periodo fascista e sinora sempre salvati, con alcune inevitabili precisazioni per renderli meno indigesti, dalla Corte Costituzionale ma il cui utilizzo da parte delle procure è stato sinora abbastanza maldestro; ciò purtroppo non esclude che la loro esistenza costituisca un serio pericolo sociale (questo sì) per la libertà di svolgimento dell'attività politico/ sindacale e tanto più per il dissenso antagonista.
Alessio Ariotto, Retelegale Torino
giovedì 8 aprile 2010
NON PUNIBILE PER ESERCIZIO DI UN DIRITTO LA CONDOTTA DI CHI CON UN BUFFETTO FA CADERE UN CAPPELLO CON EMBLEMI NAZISTI. Nota a sentenza 437/2009 Tribunale di Lanciano.

Il Giudice monocratico del Tribunale di Lanciano , Dr. Francesco marino, ha emesso una interessante sentenza in data29.9.09-6.10.09. Il procedimento penale vedeva imputati 4 giovani antifascisti abruzzesi, assistiti dagli avv. Malandra I. , De Caro E. e Di Bucchianico, Ricucci, per i reati di violenza privata ( art. 610 c.p.) in concorso perché: “costringevano il Si. XXXX YYYYY a togliere il cappello che indossava , riproducente l'aquila e la croce celtica, con minaccia consistita nell'accerchiarlo, girandogli intorno , nel guardarlo in modo provocatorio indicando il cappello e nel proporgli la possibilità, in caso contrario, di subire delle conseguenze molto dannose per la sua persona. In San Vito Chietino il 26.7.2005).
I fatti per come emersi nel corso del dibattimento sono risultati i seguenti: la sera del 26.7.05 era in svolgimento a S. Vito Chietino la festa di “Alleanza Nazionale” ed il giovane militante delpartito Sig. XXXX YYYY si trovava nel luogo della festa indossando un cappellino con visiera che riportava l'effige dell'aquila con la croce cweltica. Ad un certo punto allo stesso si avvicinarono tre/quattro giovani dello stesso paese simpatizzanti di “Rifondazione Comunista” che iniziarono a chiedergli con insistenza di togliersi il copricapo e di consegnarlo a loro . Il gioane , intimidito, si tolse il copricapo ma rifiutò di consegnarlo agli imputati e guardò nella direzione ove era suo zio in cerca di aiuto. Questi sopraggiunse e chiese cosa stesse accadendo. I 4 antagonisti politici del XXX YYY dissero che non volevano edere il simbolo della croce celtica in quanto contrari al nazismo. Intervenne un altro sodale del XXX YYY il quale prese il cappello e se lopose sulla testa e uno dei giovani imputati con un buffetto cercò senza riuscirvi di far cadere il cappello.Ne nacque un'accesa discussione tra i membri delle due fazioni politiche contrapposte, i cui gruppi si erao accresciuti in numero , senza che,. Per fortuna si arrivasse alle mani.
Il Giudice nota che la contrapposizione è avvenuta per motivi politici sostanzialmente riconducibili alla libera espressione del pensiero tutelata dalla nostra Costituzione all'art. 21. tuttavia la condotta dei quattro per sovrabbondanza numerica e tono delle espressioni usate: “se non togli il cappello finisce male” ha sicuramente realizzato una coartazione della volontà della persona offesa che vale a configurare l'elemento materiale del reato di violenza privata. Ciò posto deve rilevarsi che la coartazione posta in essere risulta scriminata alla luce della condotta posta in essere dalla persona offesa in sé costituente reato. Infatti i simboli ostentati sul cappello indossato dal XXXX YYYY, ossia l'aquila e la croce celtica,sono stati ( e sono tuttora) utilizzati da partiti e movimenti di estrema destra in Italia ed in Europa ispirati alle tragiche vicende del fascismo e del nazismo e come tali comunemente riconoscibili ed identificabili. Si tratta di simboli che, per fattoo notorio, caratterizzano iconologicamente organizzazioni, associazioni gruppi che, raccogliendo la “tradizione” culturale del nazismo e del fascismo, coltivano tra i propri scopi l'incitamento alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi e la cui costituzione, pertanto, è vietata dalla Legge italiana ( art 3 III c L n.654 del 1975). Orbene anche l'art 2 del D. Lgs n.122 del 1993 ( c.d. Legge Mancino) punisce come reato l'ostentazione di emblemi o simboli dei movimenti e gruppi di cui all'art 3III c. L. 654/75 in occasione di pubbliche riunioni, ipotesi ricorrente nel caso di specie ( festa di partito). Pertanto la coazione posta in essere dagli odierni imputati, condotta con le modalità non particolarmente aggressive riferite dalla persona offesa, tali quindi da potersi ritenere proporzionate al fatto, può ritenersi giustificata dalla finalità di impedire la commissione di un reato da parte del XXXX YYYY”.
La sentenza in commento offre un interessante ricostruzione della scriminante dell'esercizio di un diritto/adempimento di un dovere ricostruendo correttamente le condizioni per l'applicazione della scriminante in oggetto : quali l'aver compiuto un reato al fine di esercitare un proprio diritto, la proporzionalità tra la condotta posta in essere e il diritto esercitato e il diritto violato, e coerentemente il Giudice frentano fa riferimento a una sentenza della Cassazione che ha stabilito che: “ Ai fini della sussistenza o meno del reato di violenza privata, la coazione deve ritenersi giustificata non solo quando ricorra una delle cause di giustificazione previste dagli artt. 51-54 c.p. ma anche quando la violenza o minaccia sia adoperata per impedire l'esecuzione o la permanenza di un reato... però..anche quando la coazione sia stata usta per impedire la commissione di un reato, non può prescindersi da un criterio di proporzionalità tra il mezzo adoperato e il reato che si intendeva impedire” ( Cass. Pen sez. V 7.6.1988 n. 5423).

Bologna-Chieti 15 marzo 2010

avv. Isidoro Malandra
avv. Elia De Caro ( Retelegale Bologna)
venerdì 2 aprile 2010
La materia delle espropriazioni per pubblica utilità è una delle più delicate e complesse del diritto amministrativo, con risvolti significativi di diritto civile ed interferenze da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. Vi è il coinvolgimento di numerosi principi ed interessi costituzionalmente rilevanti. Vengono in considerazione aspetti di notevole rilievo sociale e di finanza pubblica.
Il provvedimento espropriativo costituisce la forma più incisiva di esplicazione del potere ablatorio, divenuto strumento insostituibile per realizzare opere pubbliche e attuare una equilibrata e corretta pianificazione urbanistica e industriale.
Infatti: «L’espropriazione consiste nel trasferimento coattivo, per ragioni di pubblico interesse, della proprietà o di altro diritto reale su un bene privato a favore della pubblica amministrazione, con la conseguente conversione del diritto reale dell’espropriato in un diritto di credito ad una somma di denaro a titolo d’indennità».
L’istituto in parola può essere utilizzato in realtà anche per interventi diversi dalle opere pubbliche, come nel caso di acquisizione, a beneficio della collettività, di immobili per i quali non è prevista una concreta trasformazione o alterazione, oppure nel caso di esproprio di aree a favore dei privati per interventi produttivi.
La posizione dell’espropriante è assimilabile a quella di un acquirente a titolo originario. Ciò comporta che l’espropriante acquista il bene libero da ogni peso (servitù, ipoteca, enfiteusi, onere reale) gravante sul bene e che gli eventuali diritti di terzi sul bene si risolvono nell’indennità.
In sostanza il diritto alla proprietà privata, che è originariamente perfetto, viene a tramutarsi -in virtù di un pubblico interesse- in un diritto affievolito. È pacifico che, trattandosi di limitazioni di diritti individuali, in conformità dei principi vigenti nel nostro ordinamento costituzionale, sia richiesta una legge, in quanto l’autorità pubblica non potrebbe procedere all’espropriazione se a ciò non fosse autorizzata dal legislatore. Il diritto di proprietà pertanto è riconosciuto come diritto di disporre e godere delle cose che ne sono oggetto da parte di un singolo individuo, sino a che non si verifichi contrasto con un interesse pubblico. In questo caso esso degrada ad interesse legittimo, essendo riconosciuto dall’ordinamento giuridico non tanto e non solo per lo sviluppo e il benessere del singolo, ma essenzialmente per lo sviluppo e il benessere della collettività.
Le regole per procedere ad una espropriazione legittima sono attualmente inserite nel testo unico espropri (d.p.r. 327/2001-dlgs 2002 n. 302 e succ. modifiche ed integrazioni) e nella legislazione regionale. I vari titolari dei beni oggetto di esproprio hanno diritto, come detto, ad indennità. In particolare, il testo unico espropri disciplina all'art. 36 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio per la realizzazione di opere private che non consistano in abitazioni dell'edilizia residenziale pubblica; all'art. 37 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area edificabile; all'art. 38 la determinazione dell'indennità nel caso di esproprio di un'area legittimamente edificata; all'art. 40 la determinazione dell'indennità di aree agricole. Sono previste inoltre, in particolari ipotesi, maggiorazioni ed indennità aggiuntive.
Quando, invece, le regole sopra menzionate non sono rispettate, si vengono a perpetrare espropriazioni illegittime. In questi casi il legislatore ha introdotto una complessa normativa che, sostanzialmente, consente l'emanazione di un provvedimento amministrativo di acquisizione del bene per sanare la commessa illegittimità. Infatti, qualora l'opera sia stata realizzata in assenza di un valido decreto di esproprio, l'art. 43 del testo unico espropri attribuisce all'amministrazione il potere di acquisire l'area al proprio patrimonio indisponibile e all'espropriato il diritto al risarcimento del danno, salvo il sindacato in sede giurisdizionale del provvedimento di acquisizione ed, in casi eccezionali e residuali, la restituzione dei beni ai proprietari espropriati. L'art. 43 è dunque applicabile quando mancano fin dall'origine i provvedimenti ablatori legittimi o gli stessi risultano comunque viziati, perciò annullabili davanti al giudice amministrativo.
Nell'ambito del parere del Consiglio di Stato n. 4 del 2001 (che ha redatto lo schema del testo unico espropri) vengono evidenziate le ragioni che hanno portato alla nascita dell'art. 43 testo unico espropri. In particolare viene affermato che l’articolo 43 mira ad eliminare la figura, sorta nella prassi giurisprudenziale, dell'occupazione appropriativa o espropriazione sostanziale (c.d. accessione invertita), nonché quella della occupazione usurpativa, perché l’ordinamento deve adeguarsi ai principi costituzionali ed a quelli generali del diritto internazionale sulla tutela della proprietà. Vi è la necessità di adeguarsi ai principi della Corte europea dei diritti dell’uomo, che con la sentenza della Sez. II, 30 maggio 2000, ric. 31524/96, ha affermato che l’istituto pretorio affermatosi nell’ordinamento italiano è contrario con l’articolo 1 del prot. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In concreto l’articolo 43 attribuisce all’Amministrazione il potere di emanare un atto di acquisizione dell’area al suo patrimonio indisponibile (con la peculiarità che non viene meno il diritto al risarcimento del danno) in base ad una valutazione discrezionale, sindacabile in sede giurisdizionale.
L'art. 43 verrebbe dunque a superare definitivamente, secondo il Consiglio di Stato, l'istituto delineato dall'ormai storica sentenza della Corte di Cassazione a Sezione Unite n. 1464 del 1983: “Nelle ipotesi in cui la Pubblica amministrazione (o un suo concessionario) occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica e tale occupazione sia illegittima, per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l'occupazione si configura legittima, la radicale trasformazione del fondo, con irreversibile sua destinazione al fine della costruzione dell'opera pubblica, comporta l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all'ente costruttore, ed inoltre costituisce un fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo nei sensi indicati, la condanna dell'ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per l'eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione, con l'ulteriore conseguenza che un provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente a tale momento, deve considerarsi del tutto privo di rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito”.
In dettaglio.
L'art. 43, rubricato “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, prevede che, valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, possa disporre che esso sia acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni. In particolare l'atto di acquisizione:
a) può essere emanato anche quando sia stato annullato l'atto da cui è sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che ha dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio;b) dà atto delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area indicando, ove risulti, la data dalla quale essa si è verificata;c) determina la misura del risarcimento del danno e ne dispone il pagamento, entro il termine di trenta giorni, senza pregiudizio per l'eventuale azione già proposta;d) è notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili;e) comporta il passaggio del diritto di proprietà;f) è trascritto senza indugio presso l'ufficio dei registri immobiliari;g) è trasmesso all'ufficio competente per l'aggiornamento degli elenchi degli atti che dichiarano la pubblica utilità (istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2 t.u. espr.).Qualora sia impugnato il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che ha dichiarato la pubblica utilità dell'opera o il decreto di esproprio, ovvero sia esercitata un'azione volta alla restituzione del bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, l'amministrazione che ne ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso in cui riconosca fondato il ricorso o la domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo.Qualora il giudice amministrativo abbia escluso la restituzione del bene senza limiti di tempo ed abbia pronunciato la condanna al risarcimento del danno, l'autorità che ha disposto l'occupazione dell'area emana l'atto di acquisizione, dando atto dell'avvenuto risarcimento del danno. Il decreto è trascritto nei registri immobiliari a cura e spese della medesima autorità.Viene precisato che le disposizioni menzionate si applicano, in quanto compatibili, anche quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, nonché quando sia imposta una servitù di diritto privato o di diritto pubblico ed il bene continui ad essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale.L'art. 43 comma 6 t.u. espr. prevede espressamente che, salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, il risarcimento del danno deve essere determinato:
a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo.
Il d.lgs. n. 302/2002 ha inserito il comma 6 bis nell'art. 43 t.u. espr., prevedendo che, ai sensi dell'articolo 3 della legge 1 agosto 2002, n. 166, l'autorità espropriante possa procedere disponendo, con oneri di esproprio a carico dei soggetti beneficiari, l'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio di soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono, anche in base alla legge, servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua, energia.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
mercoledì 31 marzo 2010
Ecco la nota che tutti aspettavamo e che tutti ci aspettavamo. Il Presidente della Repubblica ha esercitato un potere che gli conferisce la Costituzione (finché c'è) chiedendo alle Camere, a norma dell'art. 74 primo comma, una nuova deliberazione in ordine alla legge: "Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione degli enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro". Nella nota diffusa dal Quirinale si legge “Il Capo dello Stato è stato indotto a tale decisione dalla estrema eterogeneità della legge e, in particolare, dalla complessità e problematicità di alcune disposizioni - con specifico riguardo agli articoli 31 e 20 - che disciplinano temi, attinenti alla tutela del lavoro, di indubbia delicatezza sul piano sociale. Ha perciò ritenuto opportuno un ulteriore approfondimento da parte delle Camere, affinché gli apprezzabili intenti riformatori che traspaiono dal provvedimento possano realizzarsi nel quadro di precise garanzie e di un più chiaro e definito equilibrio tra legislazione, contrattazione collettiva e contratto individuale.”. Il disegno di legge 1167b approvato dal Senato il 3 marzo 3010 di iniziativa governativa e, più precisamente, del Ministro Tremonti, è approdato come da procedura sulla scrivania del Presidente della Repubblica per la sottoscrizione e la successiva promulgazione. In questa fase il capo dello Stato ha la facoltà di chiedere una ulteriore votazione alle Camere indicando, specificandone i motivi, quali temi risultano incompatibili con la Costituzione.
Gli articoli sotto esame dunque sono il 31 e il 20, vediamo che cosa prevedono.
L'art. 20 interpretava in maniera “autentica” i primi due articoli della L. n. 51/1955 escludendo dalla delega al potere esecutivo ad
emanare norme generali e speciali in materia di prevenzione degli infortuni e
di igiene del lavoro, oltre agli aeromobili anche il naviglio di Stato, precisando
la portata e gli effetti dell’intervento normativo.
Questa norma interpretativa sortirebbe il nefasto effetto di bloccare l'inchiesta della Procura di Torino su 142 uomini della Marina Militare morti per esposizione all'amianto e un processo pendente presso il Tribunale di Padova per la morte di altri due militari.
L'art. 31 contiene la norma che introduce l'arbitrato c.d.”obbligatorio” per le controversie di Lavoro togliendo al Tribunale la giurisdizione in quella materia.
Abbiamo cercato in questi giorni di dimostrare come in realtà la norma in questione non introduca una possibilità ma, in considerazione della evidente sproporzione tra le diverse forze contrattuali, un diktat per il lavoratore che si troverebbe di fronte ad una scelta obbligata: sottoscrivere il contratto individuale che contiene la clausola che impone il ricordo ad arbitri e, conseguentemente, vieta il ricorso al tribunale in caso di controversia e quindi accedere al mondo del lavoro oppure non firmare e rimanere senza lavoro e senza retribuzione.
Al contempo si rende per la prima volta oneroso l'accesso alla tutela dei diritti dei lavoratori essendo previsto, logicamente, un compenso per i componenti del collegio di conciliazione.
Insomma, una norma “disastro” che non ha bisogno di una nuova lettura o una nuova disamina ma ha bisogno di essere dimenticata e mai più riproposta.
Al di la' delle considerazioni di merito che tutti quanti in questi giorni hanno potuto leggere e discutere, deve essere evidenziata la portata della norma con riferimento allo stravolgimento che la stessa, così come formulata, avrebbe determinato nel nostro ordinamento. Il Tentativo di conciliazione, che prima era obbligatorio, sarebbe diventato facoltativo e, in quella sede, lo stesso si sarebbe potuto trasformare in itinere, in arbitrato. Il Giudice del Lavoro sarebbe stato obbligato a formulare, così come il collegio di conciliazione, una proposta transattiva e dinanzi al rifiuto ingiustificato della stessa da parte, ad esempio, del lavoratore ne avrebbe dovuto tenere di conto ai fini del giudizio. I contratti individuali in essere sarebbero stati tutti quanti rinnovati con la previsione della clausola compromissoria in forza della quale tutte le controversie che avrebbero potuto insorgere tra datore e lavoratore sarebbero stato affidate ad arbitri privati e non più ai Giudici. Gli arbitri, poi, avrebbero potuto decidere secondo equità e non nel pieno e rigido rispetto delle norma così come invece è obbligato a fare il Giudice e questo avrebbe aperto un ulteriore contenzioso di secondo grado sull'impugnazione delle transazioni sancite dai vari lodi.
Insomma, il caos più totale.
Ma a destare più di un dubbio non sono solo questi due articoli. L'attenzione, infatti, avrebbe dovuto essere posta anche sull'art. 32 del DDL in esame perché, peraltro, l'art. 31 sarebbe stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale quasi sicuramente.
L'art. 32, invece, introduce nuove disposizioni relative alle modalità e ai termini per l’impugnazione dei
licenziamenti individuali ed ai criteri di determinazione della misura del
risarcimento del danno nei casi in cui è prevista la conversione del contratto
di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato.
Questa norma, in pratica, modifica l’art. 6 primo e secondo comma della L. 604/1966 stabilendo che il licenziamento deve essere impugnato, a pena di decadenza, entro il
termine di 60 giorni dalla comunicazione, ovvero dalla comunicazione dei
motivi dello stesso, se successivi. Fin qui tutto bene. La medesima norma prevede poi che all'impugnazione stragiudiziale deve
seguire, a pena di inefficacia della stessa, entro il termine di 180 giorni, il
deposito del ricorso nella cancelleria del giudice del lavoro, ovvero la comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione
o arbitrato.
Se non si raggiunge l'accordo in sede di conciliazione si deve procedere al deposito del ricorso entro 60 giorni dal
rifiuto o dal mancato accordo.

Il comma 3 estende poi l'applicabilità questa norma anche “ai
licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla
qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine
apposto al contratto”. Non solo. E' previsto che questi termini di decadenza (60 stragiudiziale e 180 giudiziale) si applichino altresì: al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e nei contratti a progetto; all’azione di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato, con termine che decorre dalla scadenza del medesimo; al trasferimento ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile ed in questo caso il termine decorrerebbe dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento; ai casi di trasferimento o affitto di azienda o di ramo d'azienda di cui all’articolo 2112 del
codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento;
in ogni altro caso in cui si domandi la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro
nei confronti di un soggetto diverso dal titolare del contratto (somministrazione irregolare di manodopera, appalto, distacco).

Il comma 5, poi, prevede la sanzione conseguente alla
dichiarazione giudiziale di conversione di un contratto a termine in un
contratto a tempo indeterminato identificandola in un risarcimento del danno da computarsi nella misura da 2,5 a
12 mensilità. Questa norma, peraltro, sembrerebbe aggiungere al risarcimento così come sopra specificato, le retribuzioni maturate dal lavoratore che abbia offerto
le sue prestazioni, per il periodo che va dalla messa in mora al momento
della sentenza.

Ma l'abnormità più evidente è racchiusa nel comma 2 dell'art. 32 che testualmente recita: “Le disposizioni di cui all’articolo 6
della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si
applicano anche a tutti i casi di invalidità e di inefficacia del licenziamento.”. Da un lato, quindi, il comma secondo rende del tutto pleonastico il comma terzo che prevede specificamente a quali altri casi di invalidità si applica “inoltre” il comma 1 che modifica l’articolo 6
della legge 15 luglio 1966, n. 604, dall'altro nasconde uno sconvolgente paradosso. Tra le causa di inefficacia e invalidità del licenziamento può rientrare anche il licenziamento in forma orale. In quel caso il lavoratore dovrebbe provare, e potrebbe essere impossibile, che il recesso illegittimo si è verificato nei sessanta giorni precedenti la data di ricezione dell'impugnazione da parte del datore di lavoro. Non solo. Quest'ultimo sarebbe senz'altro agevolato nel fornire la prova contrario per mezzo di altri lavoratori per così dire “spontaneamente collaborativi”.
Non solo gli articoli 20 e 31, che pure sono mal congegnati ed incomprensibili tanto da poter condurre a conseguenze devastanti per il nostro ordinamento, ma anche l'art. 32, Signor Presidente, avrebbe dovuto attirare la sua attenzione sotto molteplici profili.
Ciò detto, Sacconi ha già anticipato che verranno apportati alcuni ritocchi e che si procederà ad una nuova votazione. Mi pare evidente che i ritocchi non siano sufficienti e questa volta, a differenza della prima, sarebbe opportuno che CGIL -che già si è battuta contro questa legge- PD, IDV e tutti quelli che hanno a cuore un sistema giuridico coerente e armonico, cominciassero da subito a individuare soluzioni alternative a quelle proposte da Tremonti, facendo capire in tutti i modi che questa legge non deve passare, pena la perdita definitiva dei diritti dei lavoratori così come li abbiamo conosciuti sino ad ora.
Da parte nostra continueremo a dar battaglia con questo tipo di informazione, con convegni, conferenze, dibattiti, incontri e non ci stancheremo di tentare di coinvolgere tutta la società civile in questa vicenda così enorme e così poco conosciuta. La complessità della materia non deve essere una giustificazione: in gioco c'è il futuro di tutti e, quindi, è assolutamente fondamentale attrezzarsi per combattere queste istanze controriformiste in ogni sede.

Avv. Marco Guercio – Coordinatore Nazionale di Retelegale.net

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