Lettori fissi

RETELEGALE FIRENZE

mercoledì 31 marzo 2010
Ecco la nota che tutti aspettavamo e che tutti ci aspettavamo. Il Presidente della Repubblica ha esercitato un potere che gli conferisce la Costituzione (finché c'è) chiedendo alle Camere, a norma dell'art. 74 primo comma, una nuova deliberazione in ordine alla legge: "Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione degli enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro". Nella nota diffusa dal Quirinale si legge “Il Capo dello Stato è stato indotto a tale decisione dalla estrema eterogeneità della legge e, in particolare, dalla complessità e problematicità di alcune disposizioni - con specifico riguardo agli articoli 31 e 20 - che disciplinano temi, attinenti alla tutela del lavoro, di indubbia delicatezza sul piano sociale. Ha perciò ritenuto opportuno un ulteriore approfondimento da parte delle Camere, affinché gli apprezzabili intenti riformatori che traspaiono dal provvedimento possano realizzarsi nel quadro di precise garanzie e di un più chiaro e definito equilibrio tra legislazione, contrattazione collettiva e contratto individuale.”. Il disegno di legge 1167b approvato dal Senato il 3 marzo 3010 di iniziativa governativa e, più precisamente, del Ministro Tremonti, è approdato come da procedura sulla scrivania del Presidente della Repubblica per la sottoscrizione e la successiva promulgazione. In questa fase il capo dello Stato ha la facoltà di chiedere una ulteriore votazione alle Camere indicando, specificandone i motivi, quali temi risultano incompatibili con la Costituzione.
Gli articoli sotto esame dunque sono il 31 e il 20, vediamo che cosa prevedono.
L'art. 20 interpretava in maniera “autentica” i primi due articoli della L. n. 51/1955 escludendo dalla delega al potere esecutivo ad
emanare norme generali e speciali in materia di prevenzione degli infortuni e
di igiene del lavoro, oltre agli aeromobili anche il naviglio di Stato, precisando
la portata e gli effetti dell’intervento normativo.
Questa norma interpretativa sortirebbe il nefasto effetto di bloccare l'inchiesta della Procura di Torino su 142 uomini della Marina Militare morti per esposizione all'amianto e un processo pendente presso il Tribunale di Padova per la morte di altri due militari.
L'art. 31 contiene la norma che introduce l'arbitrato c.d.”obbligatorio” per le controversie di Lavoro togliendo al Tribunale la giurisdizione in quella materia.
Abbiamo cercato in questi giorni di dimostrare come in realtà la norma in questione non introduca una possibilità ma, in considerazione della evidente sproporzione tra le diverse forze contrattuali, un diktat per il lavoratore che si troverebbe di fronte ad una scelta obbligata: sottoscrivere il contratto individuale che contiene la clausola che impone il ricordo ad arbitri e, conseguentemente, vieta il ricorso al tribunale in caso di controversia e quindi accedere al mondo del lavoro oppure non firmare e rimanere senza lavoro e senza retribuzione.
Al contempo si rende per la prima volta oneroso l'accesso alla tutela dei diritti dei lavoratori essendo previsto, logicamente, un compenso per i componenti del collegio di conciliazione.
Insomma, una norma “disastro” che non ha bisogno di una nuova lettura o una nuova disamina ma ha bisogno di essere dimenticata e mai più riproposta.
Al di la' delle considerazioni di merito che tutti quanti in questi giorni hanno potuto leggere e discutere, deve essere evidenziata la portata della norma con riferimento allo stravolgimento che la stessa, così come formulata, avrebbe determinato nel nostro ordinamento. Il Tentativo di conciliazione, che prima era obbligatorio, sarebbe diventato facoltativo e, in quella sede, lo stesso si sarebbe potuto trasformare in itinere, in arbitrato. Il Giudice del Lavoro sarebbe stato obbligato a formulare, così come il collegio di conciliazione, una proposta transattiva e dinanzi al rifiuto ingiustificato della stessa da parte, ad esempio, del lavoratore ne avrebbe dovuto tenere di conto ai fini del giudizio. I contratti individuali in essere sarebbero stati tutti quanti rinnovati con la previsione della clausola compromissoria in forza della quale tutte le controversie che avrebbero potuto insorgere tra datore e lavoratore sarebbero stato affidate ad arbitri privati e non più ai Giudici. Gli arbitri, poi, avrebbero potuto decidere secondo equità e non nel pieno e rigido rispetto delle norma così come invece è obbligato a fare il Giudice e questo avrebbe aperto un ulteriore contenzioso di secondo grado sull'impugnazione delle transazioni sancite dai vari lodi.
Insomma, il caos più totale.
Ma a destare più di un dubbio non sono solo questi due articoli. L'attenzione, infatti, avrebbe dovuto essere posta anche sull'art. 32 del DDL in esame perché, peraltro, l'art. 31 sarebbe stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale quasi sicuramente.
L'art. 32, invece, introduce nuove disposizioni relative alle modalità e ai termini per l’impugnazione dei
licenziamenti individuali ed ai criteri di determinazione della misura del
risarcimento del danno nei casi in cui è prevista la conversione del contratto
di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato.
Questa norma, in pratica, modifica l’art. 6 primo e secondo comma della L. 604/1966 stabilendo che il licenziamento deve essere impugnato, a pena di decadenza, entro il
termine di 60 giorni dalla comunicazione, ovvero dalla comunicazione dei
motivi dello stesso, se successivi. Fin qui tutto bene. La medesima norma prevede poi che all'impugnazione stragiudiziale deve
seguire, a pena di inefficacia della stessa, entro il termine di 180 giorni, il
deposito del ricorso nella cancelleria del giudice del lavoro, ovvero la comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione
o arbitrato.
Se non si raggiunge l'accordo in sede di conciliazione si deve procedere al deposito del ricorso entro 60 giorni dal
rifiuto o dal mancato accordo.

Il comma 3 estende poi l'applicabilità questa norma anche “ai
licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla
qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine
apposto al contratto”. Non solo. E' previsto che questi termini di decadenza (60 stragiudiziale e 180 giudiziale) si applichino altresì: al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e nei contratti a progetto; all’azione di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato, con termine che decorre dalla scadenza del medesimo; al trasferimento ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile ed in questo caso il termine decorrerebbe dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento; ai casi di trasferimento o affitto di azienda o di ramo d'azienda di cui all’articolo 2112 del
codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento;
in ogni altro caso in cui si domandi la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro
nei confronti di un soggetto diverso dal titolare del contratto (somministrazione irregolare di manodopera, appalto, distacco).

Il comma 5, poi, prevede la sanzione conseguente alla
dichiarazione giudiziale di conversione di un contratto a termine in un
contratto a tempo indeterminato identificandola in un risarcimento del danno da computarsi nella misura da 2,5 a
12 mensilità. Questa norma, peraltro, sembrerebbe aggiungere al risarcimento così come sopra specificato, le retribuzioni maturate dal lavoratore che abbia offerto
le sue prestazioni, per il periodo che va dalla messa in mora al momento
della sentenza.

Ma l'abnormità più evidente è racchiusa nel comma 2 dell'art. 32 che testualmente recita: “Le disposizioni di cui all’articolo 6
della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si
applicano anche a tutti i casi di invalidità e di inefficacia del licenziamento.”. Da un lato, quindi, il comma secondo rende del tutto pleonastico il comma terzo che prevede specificamente a quali altri casi di invalidità si applica “inoltre” il comma 1 che modifica l’articolo 6
della legge 15 luglio 1966, n. 604, dall'altro nasconde uno sconvolgente paradosso. Tra le causa di inefficacia e invalidità del licenziamento può rientrare anche il licenziamento in forma orale. In quel caso il lavoratore dovrebbe provare, e potrebbe essere impossibile, che il recesso illegittimo si è verificato nei sessanta giorni precedenti la data di ricezione dell'impugnazione da parte del datore di lavoro. Non solo. Quest'ultimo sarebbe senz'altro agevolato nel fornire la prova contrario per mezzo di altri lavoratori per così dire “spontaneamente collaborativi”.
Non solo gli articoli 20 e 31, che pure sono mal congegnati ed incomprensibili tanto da poter condurre a conseguenze devastanti per il nostro ordinamento, ma anche l'art. 32, Signor Presidente, avrebbe dovuto attirare la sua attenzione sotto molteplici profili.
Ciò detto, Sacconi ha già anticipato che verranno apportati alcuni ritocchi e che si procederà ad una nuova votazione. Mi pare evidente che i ritocchi non siano sufficienti e questa volta, a differenza della prima, sarebbe opportuno che CGIL -che già si è battuta contro questa legge- PD, IDV e tutti quelli che hanno a cuore un sistema giuridico coerente e armonico, cominciassero da subito a individuare soluzioni alternative a quelle proposte da Tremonti, facendo capire in tutti i modi che questa legge non deve passare, pena la perdita definitiva dei diritti dei lavoratori così come li abbiamo conosciuti sino ad ora.
Da parte nostra continueremo a dar battaglia con questo tipo di informazione, con convegni, conferenze, dibattiti, incontri e non ci stancheremo di tentare di coinvolgere tutta la società civile in questa vicenda così enorme e così poco conosciuta. La complessità della materia non deve essere una giustificazione: in gioco c'è il futuro di tutti e, quindi, è assolutamente fondamentale attrezzarsi per combattere queste istanze controriformiste in ogni sede.

Avv. Marco Guercio – Coordinatore Nazionale di Retelegale.net
lunedì 29 marzo 2010
La Corte di Cassazione, con la sentenza della quinta sezione penale n.11891, ha affermato che costituisce reato il comportamento del datore di lavoro teso a costringere il dipendente a svolgere attività anche dopo il normale orario di lavoro con la minaccia del licenziamento o di adibizione a condizioni lavorative stressanti tali da indurlo alle dimissioni.

Già la Suprema Corte aveva avuto modo di affermare (seconda sezione penale, n. 48868/09) che costituisce reato di estorsione il minacciare il dipendente al fine di costringerlo a quietanzare buste paga che riportino una retribuzione maggiore di quella effettivamente erogata e dovuta in base ai minimi retributivi contrattuali.
domenica 7 marzo 2010

sabato 6 marzo 2010
Chi è il bullo? Il bullo è il prepotente, colui che non rispetta le regole della civile convivenza al fine di imporre il proprio punto di vista, al fine di raggiungere i propri scopi. Ecco, io credo che il decreto legge approvato ieri sera dalla presidenza del consiglio dei ministri sia un atto di bullismo politico, una prova di forza, una prepotenza istituzionale.
Questo decreto a mio avviso è del tutto illegittimo e vado a spiegare brevemente perché. Esiste una legge che si chiama legge n. 400/88 ed è rubricata "Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri". E' la legge, cioè che regola il funzionamento del governo. L'art. 15 di questa legge dice:
ART. 15.
(Decreti-legge)
1. I provvedimenti provvisori con forza di legge ordinaria adottati ai sensi dell'articolo 77 della Costituzione sono presentati per l'emanazione al Presidente della Repubblica con la denominazione di "decreto-legge" e con l'indicazione, nel preambolo, delle circostanze straordinarie di necessita' e di urgenza che ne giustificano l'adozione, nonché dell'avvenuta deliberazione del Consiglio dei ministri.
2. Il Governo non puo', mediante decreto-legge:
a) conferire deleghe legislative ai sensi dell'articolo 76 della Costituzione;
b) provvedere nelle materie indicate nell'articolo 72, quarto comma, della Costituzione;
...omissis...”
Quindi il Governo non può emanare decreti legge che abbiano ad oggetto le materie indicate nell'articolo 72 quarto comme della Costituzione. Vediamo questo articolo 72 quarto comma: “La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi.
Il combinato disposto di queste norma è chiarissimo: il Governo non può emanare decreti legge in materia elettorale. Quindi il decreto legge emanato il 5 marzo 2010 è illegittimo. Ed infatti la mia prima perplessità è: perché il Presidente della Repubblica l'ha firmato? Poi ho letto il comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri ed ho capito. Si legge “Ribadita e sottolineata la necessità di assicurare il pieno esercizio dei diritti di elettorato attivo e passivo, il Consiglio ha condiviso l’esigenza di garantire i valori fondamentali della coesione sociale, presupposto di un ordinato svolgimento delle competizioni elettorali. A questo fine, pertanto, il decreto-legge detta alcuni criteri interpretativi di norme in materia di rispetto dei termini per la presentazione delle liste, di autenticazione delle firme e di ricorsi contro le decisioni dell’Ufficio centrale regionale.”. E' evidente che il governo sa benissimo che le norme in materia di rispetto dei termini per la presentazione delle liste, di autenticazione delle firme etc. sono materie elettorali e quindi materie sottratte alla sua potestà legislativa e quindi dice che “detta alcuni criteri interpretativi”. Si tratta di una norma di interpretazione. Le norme interpretative sono norma che servono a spiegare meglio una norma sul cui significato si accende una feroce disputa ermeneutica a suon di sentenze che contraddicono altre sentenze, di esponenti della dottrina che si affrontano in diatribe all'ultimo sangue. Questa norma, quindi, deve essere poco chiara nella sua formulazione. 
Nel caso in esame, tuttavia, stiamo parlando di una norma che dice che i fogli dove sono contenute le firme devono essere depositati all'ufficio elettorale entro una determinata ora di una determinata data. Mi spiegate cosa c'è da capire? Mi dite quando mai nella storia della Repubblica si è acceso un dibattito sul significato di questa norma tale da rendere indispensabile il ricorso ad una norma interpretativa? Ed infatti la realtà è che la norma era chiarissima e il governo l'ha modificata e non interpretata al punto che quello che prima non era possibile, ossia la partecipazione alla competizione elettorale da parte di Formigoni e Polverini, oggi è possibilissimo nonostante il giudizio espresso dalla Corte d'Appello che, dovendo applicare la norma nella sua formulazione precedente rispetto al decreto legge, aveva respinto i ricordi presentati dai mancati candidati.
Le regole valgono solo per noi. Per i potenti tutto si aggiusta, si rimedia con la forza e la spavalderia. Non ci lamentiamo se questo atteggiamento della politica si riversa nelle nostre vite, viene assorbito dai giovanissimi, è egemone nella nostra società. Provate a pensare cosa sarebbe successo se una lista civica avesse depositato in ritardo le liste o le firme. Niente. Semplicemente gli sarebbe stato giustamente impedito di partecipare. La democrazia è il rispetto delle regole ed in uno stato democratico tutti devono essere governati dalle leggi. Se questo meccanismo si rompe allora vale tutto a tutti i livelli e la società recepisce questo messaggio istantaneamente con tutto ciò che ne consegue.
Ed invece è successo ancora una volta. Mi chiedo quante angherie ancora dovremmo sopportare prima di capire che in uno stato democratico queste cose non possono essere tollerate? Quanti soprusi, quanti atti di bullismo, quante prepotenze dobbiamo ancora ingoiare? E gli organi di garanzia, come il Presidente della Repubblica, come possono permettere che questo accada?
Vi lascio con un'ultima breve riflessione. Ho la sensazione reale che gli attuali capi delle formazioni politiche che si oppongono a questo governo, a Berlusconi, al berlusconismo, debbano tutti quanti riflettere sul loro fallimento e dimettersi immediatamente. Non è possibile che ci stia capitando questo ed una responsabilità non può non esser ricercata nell'inettitudine spaventosa di chi dovrebbe contrastare questi fenomeni. Pensateci. Almeno pensateci.
Marco Guercio. Avvocato.
mercoledì 3 marzo 2010
Nelle procedure espropriative riveste notevole importanza l’istituto della cessione volontaria. Ricevuta la notifica dell'indennità provvisoria, il proprietario espropriando potrebbe decidere di accettarne l'importo. In tal caso, l'indennità provvisoria diventerebbe definitiva. L'atto con cui si concorda l'indennità è però cosa ben diversa dall'atto di cessione volontaria. Infatti la giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel ritenere che l'accordo amichevole raggiunto dalle parti, sull'ammontare dell'indennità di esproprio o sul corrispettivo della cessione volontaria, non realizzi il trasferimento della proprietà dell'immobile dal titolare del diritto dominicale all'ente pubblico, occorrendo, invece, necessariamente che il procedimento ablatorio si concluda o con il decreto di esproprio o con il contratto di cessione volontaria.
La cessione volontaria di un immobile costituisce un contratto ad oggetto pubblico che, inserito nell'ambito di un procedimento espropriativo, lo conclude, eliminando la necessità di un provvedimento amministrativo di acquisizione coatta della proprietà privata. Questo non esclude che un bene immobile possa essere trasferito all'ente pubblico a mezzo di un contratto di compravendita, del tutto assoggettato alla disciplina privatistica. Occorre quindi distinguere se in pratica ci si sia avvalsi dell'uno o dell'altro strumento contrattuale (anche ai fini dell'applicabilità di istituti connessi alla procedura pubblicistica dell'espropriazione, quali la determinazione dell'indennizzo secondo i canoni legali e la retrocessione del bene ove l'opera pubblica non sia stata realizzata). Elementi costitutivi indispensabili per configurare la cessione volontaria (che valgono, altresì, a differenziarla dalla compravendita) sono secondo la giurisprudenza:
a) l'inserimento del contratto nell'ambito di un procedimento espropriativo;
b) la preesistenza nell'ambito del procedimento non solo della dichiarazione di pubblica utilità dell'opera realizzanda, ma anche del subprocedimento di determinazione dell'indennità da parte dell'espropriante, che deve essere da quest'ultimo offerta e dall'espropriando accettata (puramente e semplicemente);
c) il prezzo di cessione deve essere obbligatoriamente correlato ai parametri di legge stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante in caso di espropriazione, parametri dai quali non è possibile discostarsi (ex multis CDS 874/2007; Cassazione civile, sez. I, 11 marzo 2006, n. 5390).
Si tenga presente tra l'altro che il trattamento fiscale degli atti di cessione volontaria è più favorevole ripetto agli ordinari atti di compravendita, e questo costituisce un ulteriore elemento di distinzione tra i due tipi di atti.
Si ritiene in dottrina e giurisprudenza che la natura dell'atto di cessione si collochi in un ambito promiscuo tra il diritto pubblico e il diritto privato: infatti viene per lo più considerato un contratto pubblicistico la cui conclusione è, allo stesso tempo, soggetta alla disciplina privatistica, caratterizzata non dalla posizione di preminenza dell'amministrazione espropriante, ma dall'incontro paritetico delle volontà: gli effetti traslativi della proprietà traggono origine dal contratto, non da provvedimenti amministrativi, che pure parallelamente caratterizzano il perfezionamento della volontà dell'ente, con il quale le parti concludono in via negoziale la vicenda ablatoria.
Nel sistema della legge generale sull'espropriazione di pubblica utilità, la cessione volontaria, siccome regolata da disposizioni di carattere inderogabile e tassativo, ha dunque natura di negozio di diritto pubblico, che assolve alla funzione propria del decreto di espropriazione di segnare l'acquisto, a titolo originario, in favore della P.A., del bene compreso nel piano d'esecuzione dell'opera pubblica. Da tale equiparazione discende la necessaria conseguenza che, anche nell'ipotesi di acquisto del bene a mezzo di cessione volontaria, una volta pronunciata l'espropriazione e trascritto il relativo procedimento, tutti i diritti relativi agli immobili espropriati possono essere fatti valere esclusivamente sull'indennità. Sicché, il terzo che pretenda di far valere il diritto di proprietà (ad esempio per intervenuta usucapione) su tutto o parte del bene già trasferito all'espropriante non può proporre azione di rivendicazione in favore dell'espropriante, ma deve far valere il proprio diritto nei confronti dell'espropriato, sull'indennità di espropriazione. Infatti, ai sensi dell'art. 34, secondo comma, TUE: «dopo la trascrizione del decreto di esproprio o dell'atto di cessione, tutti i diritti relativi al bene espropriato possono essere fatti valere esclusivamente sull'indennità». Sull'applicazione giurisprudenziale di tali principi si veda fra le altre Cassazione civile, sez. II, 24 giugno 2008, n. 17172. Inoltre, ai sensi dell'art. 45.3 TUE: «l'accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio e non li perde se l'acquirente non corrisponde la somma entro il termine concordato». L'equiparazione con il decreto di esproprio comporta che il terzo, che ritenga di avere un diritto sull'indennità, possa proporre opposizione al giudice ordinario (Corte d'Appello), mentre chi è stato chiamato a concludere l'accordo può impugnarlo, in linea di massima, innanzi al giudice amministrativo. Da tenere presente peraltro che, in tema di cessione volontaria, l'inadempimento da parte dell'espropriante con acquisizione alla proprietà pubblica avvenuta per irreversibile trasformazione del fondo occupato, comporta una sua responsabilità di natura contrattuale con obbligo di risarcire il danno, stante la non restituibilità del bene. La causa, al pari di tutte le controversie contrattuali, rientra nella giurisdizione del g.o., quale giudice dei diritti, senza che rilevi, ai fini della giurisdizione, l'emanazione, ai sensi dell'art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, di provvedimento di acquisizione sanante, in quanto, a prescindere dall'impossibilità di applicazione retroattiva della norma nel caso di dichiarazione di pubblica utilità emessa anteriormente alla sua entrata in vigore, è lo stesso art. 43 cit. che attribuisce la giurisdizione al g.a. nella diversa ipotesi di impugnazione di provvedimenti amministrativi ove sia esercitata un'azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico (si veda in proposito Cassazione civile, sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26732).
Secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, siccome nell'ambito della cessione volontaria la somma pattuita, come abbiamo visto, non è un corrispettivo rimesso alla libera determinazione delle parti, bensì una indennità commisurata al paramento legale, non risulterebbero applicabili le disposizioni in materia di risoluzione e di rescissione del contratto. Ne consegue però che, se la manifestazione di volontà delle parti è riferita ad un prezzo che non sia stato ricavato dall'Amministrazione sulla base dei summenzionati criteri legali, viene a mancare ogni efficacia negoziale pubblicistica, e vi è solo un contratto avente natura privatistica (con conseguente giurisdizione del giudice ordinario CASS. S.U. 4632/2007). In giurisprudenza, inoltre, è stata più volte sancita l'ammissibilità dell'azione di nullità e di annullamento del contratto di cessione volontaria (si veda fra tutte CASS. 8969/2000). La nullità può riguardare anche una singola clausola, come a volte accade per quella determinativa del prezzo. La cessione volontaria è caratterizzata, come abbiamo visto, dalla inderogabilità delle regole sulla determinazione dell'indennità di esproprio, sicché nel caso di deroga va sostituito l'importo pattuito applicando i criteri legali, sanando così la nullità relativa della clausola (Cassazione civile, sez. I, 5 luglio 2000, n. 8969).
Da tenere presente che, ai sensi dell'art. 45.1 TUE, il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell'espropriazione l'atto di cessione del bene «fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell'opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio». Il termine iniziale è dunque costituito dalla dichiarazione della pubblica utilità; prima di tale evento le parti non possono stipulare l'atto di cessione, mentre il termine finale è costituito dalla data di esecuzione del decreto di esproprio, in quanto è con l'esecuzione del decreto che si produce l'effetto traslativo del bene (la stipula dell'atto di cessione dopo la esecuzione sarebbe a tutti gli effetti nullo per mancanza dell'oggetto). Il testo unico, art. 20, disciplina l'ipotesi in cui, una volta condivisa la determinazione della misura dell'indennità, non sia stipulato l'atto di cessione per rifiuto o inadempimento del proprietario: “9. Il beneficiario dell'esproprio ed il proprietario stipulano l'atto di cessione del bene qualora sia stata condivisa la determinazione della indennità di espropriazione e sia stata depositata la documentazione attestante la piena e libera proprietà del bene. Nel caso in cui il proprietario percepisca la somma e si rifiuti di stipulare l'atto di cessione del bene, può essere emesso senza altre formalità il decreto di esproprio, che dà atto di tali circostanze, e può esservi l'immissione in possesso, salve le conseguenze risarcitorie dell'ingiustificato rifiuto di addivenire alla stipula.
12. L'autorità espropriante, anche su richiesta del promotore dell'espropriazione, può altresì emettere ed eseguire il decreto di esproprio, dopo aver ordinato il deposito dell'indennità condivisa presso la Cassa depositi e prestiti qualora il proprietario abbia condiviso la indennità senza dichiarare l'assenza di diritti di terzi sul bene, ovvero qualora non effettui il deposito della documentazione di cui al comma 8 nel termine ivi previsto ovvero ancora non si presti a ricevere la somma spettante.”
Non risulta, invece, disciplinata legislativamente l'ipotesi che la mancata stipula dipenda dall'autorità espropriante, ma a tale lacuna ha sopperito la giurisprudenza. Infatti il mancato perfezionamento dell'atto di cessione per inerzia della Autorità espropriante o mancata emanazione del decreto di esproprio entro i termini della dichiarazione di pubblica utilità, non producendo alcun effetto traslativo (ricondotto al solo al successivo atto negoziale), comporta automaticamente la perdita di efficacia dell'accordo. Infatti l'accordo amichevole sull'ammontare dell'indennità di espropriazione non comporta una cessione volontaria del bene che renda non più necessario il completamento del procedimento espropriativo al fine del passaggio della proprietà del bene dall'espropriato all'espropriante. Peraltro, non essendo l'amministrazione che ha iniziato un siffatto procedimento obbligata per legge a completarlo, non è configurabile in capo al privato che abbia concluso detto accordo un diritto ad essere espropriato, ma solo un diritto a ricevere l'indennità nella misura concordata quando l'esproprio abbia luogo, mentre, se il procedimento non si conclude con l'espropriazione, viene meno, come detto, l'efficacia dell'accordo (ex plurimis CASS 9925/2005).
Ricordiamo che, una volta concordata l'indennità offerta, l'autorità espropriante, in alternativa alla cessione volontaria, può procedere alla emissione e all'esecuzione del decreto di esproprio. Ovviamente al proprietario che abbia accettato l'indennità offerta spetta l'importo di cui all'articolo 45 TUE, comma 2, anche nel caso in cui l'autorità espropriante abbia emesso il decreto di espropriazione ai sensi dei commi 10 e 12 art. 20 TUE.
Il negozio di cessione volontaria concluso da un'amministrazione comunale nell'ambito di un procedimento espropriativo si deve ritenere soggetto, al pari di ogni contratto stipulato dalle pubbliche amministrazioni, all'osservanza di tutti gli adempimenti richiesti dall'evidenza pubblica, primo fra tutti il requisito della forma scritta "ad substantiam", che ne costituisce elemento essenziale avente funzione costitutiva e non dichiarativa, conseguendone che la prova dell'esistenza e del contenuto di tale negozio, specie per quanto attiene all'obbligazione di pagare il prezzo da parte dell'amministrazione, non può essere fornita attraverso la confessione o il riconoscimento di debito (Cassazione civile, sez. I, 15 gennaio 2007, n. 621)
L'Autorità espropriante è tenuta per legge alla successiva trascrizione ai sensi dell'art. 2010, che presuppone un atto in forma pubblica o scrittura privata autenticata (art. 2657 c.c.).
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
martedì 2 marzo 2010

Retelegale Live News

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