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giovedì 28 gennaio 2010
La presente disamina si propone di analizzare i nuovi tratti del procedimento disciplinare nel pubblico impiego così come ridisegnati alla luce della legge delega n. 15/2009 e del successivo d.lgs. n. 150/2009 di attuazione.
Prima di procedere all'esame delle disposizioni che si ritengono maggiormente significative, sembra necessario dare atto di come l'intervento in materia disciplinare si ponga in perfetta sintonia con la ratio della legge delega rivolta ad operare una sostanziale rivisitazione della struttura portante del processo sulla c.d. “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego in Italia inaugurato con il D.lgs. 29/1993 e consacrato con il d.lgs. 165/2001. In tale prospettiva l’art. 1 riassume in sé i cardini delle innovazioni modificando radicalmente il precedente assetto sulle fonti, di cui vi è specifico contenuto nell’art.2, comma 2, del D.Lgs. n. 165/01.
Com’è noto, quest’ultima norma disponeva un’espressa potenzialità, a favore dello strumento della contrattazione collettiva, di derogare eventuali disposizioni di legge, di regolamenti e/o di statuti non in sintonia con le regole dettate dalla contrattazione collettiva stessa. In altri termini, la centrale disposizione di cui all’art. 2, fulcro del richiamato D.Lgs. n. 165/01, legittimava ampiamente lo strumento della negoziazione collettiva ad un’operazione di vera e propria espunzione di normative non compatibili con essa. L’attuale modifica, invece, pur disponendo sempre sulla possibilità di deroga da parte della contrattazione collettiva, stabilisce perentoriamente, però, che ciò sia possibile solo quando espressamente previsto dalla legge, invertendosi per tal via i termini enunciati.
È di tutta evidenza che la modifica in questione abbia finito con lo scardinare uno dei pilastri dello stesso D.Lgs. n. 165/01, intervenendo su un punto centrale riguardo alla struttura dei rapporti di lavoro.
Si tratta di ripristinare, quindi, il tradizionale rapporto tra legge e contratto, subordinando quest’ultimo alla legge e circoscrivendone la portata ed il grado di autonomia.
L'obiettivo dichiarato è quello del conseguimento dell'efficienza e della ottimizzazione della pubblica amministrazione, obiettivo il cui conseguimento passa anche attraverso la complessiva riscrittura della materia disciplinare concepita ai sensi dell'art. 67 d.lgs 150/2009 come mezzo di controllo dei risultati della performance individuale del dipendente.
In tale prospettiva la complessiva riforma del procedimento disciplinare contenuta nell'art. 7 della legge 15/2009 ed attuata dagli artt. 68 e ss del d.lgs 150/2009 emblematicamente espropria il potere della contrattazione collettiva di intervenire sulla materia disciplinare, stravolgendo l'impostazione contenuta nel d.lgs 165/2001.
Non è certo un caso che il sopra citato art. 68 sostituisca per intero l'art. 55 d.lgs. 165/2001 statuendo che le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti costituiscono norme imperative ai sensi e per gli effetti degli art. 1339 e 1419, comma 2 c.c. e si applicano ai rapporti di lavoro di cui al comma 2, comma 2 alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2. In particolare deve essere stigmatizzato che sebbene il nuovo testo dell'art. 68, comma 2 sembri devolvere alla contrattazione collettiva l'individuazione delle tipologie di infrazioni e delle relative sanzioni, invero la riserva legale ivi contenuta è destinata a risultare sicuramente pregnante.
Peraltro è lo stesso art. 68 che al comma 3 prevede come la contrattazione collettiva non possa istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari salvo la possibilità di prevedere forme di conciliazione non obbligatoria fuori dei casi per i quali è prevista la sanzione del licenziamento.
Si precisa per completezza come il citato art. 68 riservi un trattamento diversificato per i dirigenti giacché “per le infrazioni disciplinari ascrivibili al dirigente ai sensi degli articoli 55-bis, comma 7, e 55 sexies, comma 3, si applicano, ove non diversamente stabilito dal contratto collettivo, le disposizioni di cui al comma 4 del predetto articolo 55-bis, ma le determinazioni conclusive del procedimento sono adottate dal dirigente generale o titolare di incarico conferito ai sensi dell'articolo 19, comma 3.». In sostanza per le infrazioni identificate nella predetta disposizione rimane salva la possibilità per i CCNL di prevedere forme di conciliazione in deroga al procedimento previsto dall'art. 55 bis comma 4.
L'art. 69 d.lgs. 150/2009 introducendo dopo l'art. 55 d.lgs 165/2001 gli art. 55 bis, 55 ter, 55 quater, 55 quinquies, 55 sexies, 55 septies riscrive i profili sostanziali e procedurali della materia disciplinare.
Volendo operare una sintesi si può rilevare come il legislatore delegato abbia operato una prima distinzione tra sanzioni lievissime, il rimprovero verbale, ed infrazioni di minore gravita', per le quali e' prevista l'irrogazione di sanzioni superiori al rimprovero verbale ed inferiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni, attribuendo la competenza dell'intero procedimento al responsabile della struttura presso il quale il dipendente risulta assegnato ove detto responsabile abbia qualifica dirigenziale.
Per le sanzioni più gravi rispetto a quelle sopra individuate, ovvero sempre nei casi in cui il responsabile della struttura non abbia qualifica dirigenziale, la competenza risulta attribuita all'Ufficio per i procedimenti disciplinari che viene individuato da ciascuna amministrazione secondo il proprio ordinamento.
Tralasciando in questa sede la pedissequa disciplina procedurale descritta dal nuovo art 55 bis ai commi 1, 2, 3, 4, 5 e 6 sembra interessante sottolineare la disposizione del successivo comma 7 ove il legislatore delegato impone a chiare lettere un dovere di fattiva collaborazione a carico dei dipendenti e dei dirigenti nell'ambito del procedimento disciplinare. Ivi si dispone infatti che ove il lavoratore o il dirigente appartenente alla medesima amministrazione dell'incolpato o ad una diversa che per esigenze di servizio o di ufficio sia a conoscenza di informazioni rilevanti per la definizione del procedimento disciplinare si rifiuti senza motivo di fornire la collaborazione richiesta dall'autorità procedente ovvero rende dichiarazioni false o reticenti è soggetto all'applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino ad un massimo di quindici giorni.
Interessante è inoltre la disposizione del comma a del medesimo art. 55 bis ove si statuisce che anche in caso di dimissioni, se per l'infrazione commessa è prevista la sanzione del licenziamento o se comunque sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio, il procedimento disciplinare abbia egualmente corso e che le determinazioni conclusive sono assunte a fini degli effetti giuridici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Proseguendo nell'analisi delle nuove disposizioni normative introdotte dal legislatore delegato sembra opportuno rilevare come la nuova disciplina abbia fatto salve le norme già previste dalla contrattazione collettiva in tema di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo e tuttavia, in una prospettiva disciplinare più severa, stabilisce il nuovo art. 55 quater (intitolato licenziamento disciplinare) che si applichi comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi:
a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalita' fraudolente, ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia;
b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o comunque per piu' di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione;
c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall'amministrazione per motivate esigenze di servizio;
falsita' documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera;
e) reiterazione nell'ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell'onore e della dignita' personale altrui;
f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale e' prevista l'interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l'estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro.
Di particolare rilievo appare la disposizione del secondo comma dell'art. 55 quater che nella prospettiva di garantire e conferire effettività all'obiettivo dell'efficienza e della ottimizzazione della pubblica amministrazione tipicizza una ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo stabilendo che : “Il licenziamento in sede disciplinare e' disposto, altresi', nel caso di prestazione lavorativa, riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio, per la quale l'amministrazione di appartenenza formula, ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, una valutazione di insufficiente rendimento e questo e' dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento di cui all'articolo 54.
Chiarisce, poi, il comma 3 art. 55 quater che nei casi di cui al comma 1, lettere a), d), e) ed f), il licenziamento e' senza preavviso.
Di particolare interesse risulta inoltre la disciplina del nuovo art. 55 quinquies che dimostra lo scrupolo del legislatore di intervenire sul fenomeno delle assenze del dipendente pubblico. Ivi si dispone che fatto salvo quanto previsto dal codice penale, “il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalita' fraudolente, ovvero giustifica l'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia e' punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600. La medesima pena si applica al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto.”
Per quanto concerne il rapporto lavorativo si prevede al successivo comma 2 che : “nei casi di cui al comma 1, il lavoratore, ferme la responsabilita' penale e disciplinare e le relative sanzioni, e' obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonche' il danno all'immagine subiti dall'amministrazione.
Infine il comma 3 art. 55 quinquies stabilisce che: La sentenza definitiva di condanna o di applicazione della pena per il delitto di cui al comma 1 comporta, per il medico, la sanzione disciplinare della radiazione dall'albo ed altresi', se dipendente di una struttura sanitaria pubblica o se convenzionato con il servizio sanitario nazionale, il licenziamento per giusta causa o la decadenza dalla convenzione. Le medesime sanzioni disciplinari si applicano se il medico, in relazione all'assenza dal servizio, rilascia certificazioni che attestano dati clinici non direttamente constatati ne' oggettivamente documentati.
Il nuovo art. 55 sexies si occupa poi della “Responsabilita' disciplinare per condotte pregiudizievoli per l'amministrazione e della limitazione della responsabilita' per l'esercizio dell'azione disciplinare Al comma 1 si stabilisce che la condanna della pubblica amministrazione al risarcimento del danno derivante dalla violazione, da parte del lavoratore dipendente, degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento di cui all'articolo 54, comporta l'applicazione nei suoi confronti, ove gia' non ricorrano i presupposti per l'applicazione di un'altra sanzione disciplinare, della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di tre mesi, in proporzione all'entita' del risarcimento.
Di particolare interesse la disposizione del comma 2 dove si prevede che fuori dei casi previsti nel comma 1, il lavoratore, quando cagiona grave danno al normale funzionamento dell'ufficio di appartenenza, per inefficienza o incompetenza professionale accertate dall'amministrazione ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, e' collocato in disponibilita', all'esito del procedimento disciplinare che accerta tale responsabilita', e si applicano nei suoi confronti le disposizioni di cui all'articolo 33, comma 8, e all'articolo 34, commi 1, 2, 3 e 4. Il provvedimento che definisce il giudizio disciplinare stabilisce le mansioni e la qualifica per le quali puo' avvenire l'eventuale ricollocamento. Durante il periodo nel quale e' collocato in disponibilita', il lavoratore non ha diritto di percepire aumenti retributivi sopravvenuti.
In sostanza la norma sembra prevedere la possibilità che il provvedimento disciplinare nelle ipotesi sopra descritte possa concludersi con la messa in disponibilità del lavoratore con diritto alla percezione di un'indennità pari all'80 per cento dello stipendio e dell'indennità integrativa speciale, con esclusione di qualsiasi altro emolumento retributivo comunque denominato, per la durata massima di ventiquattro mesi. Ove non sia possibile il ricollocamento, il richiamo all'art. 34, comma 4 d.lgs. 165/2001, sembrerebbe poter determinare la risoluzione del rapporto di lavoro.
I commi 3 e 4 art. 55 sexies disciplinano le ipotesi di mancato esercizio e della la decadenza dell'azione disciplinare sancite dall'art. 55 bis che risultino dovute all'omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare ovvero a valutazioni sull'insussistenza dell'illecito disciplinare irragionevoli o manifestamente infondate, in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare. Tali condotte comportano, per i soggetti responsabili aventi qualifica dirigenziale, l'applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione in proporzione alla gravita' dell'infrazione non perseguita, fino ad un massimo di tre mesi in relazione alle infrazioni sanzionabili con il licenziamento, ed altresi' la mancata attribuzione della retribuzione di risultato per un importo pari a quello spettante per il doppio del periodo della durata della sospensione. Ai soggetti non aventi qualifica dirigenziale si applica la predetta sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione, ove non diversamente stabilito dal contratto collettivo. Il comma 4 disciplina la limitazione della responsabilità civile eventualmente configurabile a carico del dirigente in relazione a profili di illiceita' nelle determinazioni concernenti lo svolgimento del procedimento disciplinare che risulta sussistente , in conformita' ai principi generali, nei casi di dolo o colpa grave.
Sembra infine necessario dare conto del nuovo art. 55 ter che disciplina e rimodula il rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale. Il nuovo principio enunciato nel comma 1 è che il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l'autorita' giudiziaria, e' proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni di minore gravita', di cui all'articolo 55-bis, comma 1, primo periodo, non e' ammessa la sospensione del procedimento.
Solo per le infrazioni di maggiore gravita', di cui all'articolo 55-bis, comma 1, secondo periodo, l'ufficio competente, nei casi di particolare complessita' dell'accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all'esito dell'istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l'irrogazione della sanzione, puo' sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale, salva la possibilita' di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente.
Nella citata impostazione di maggior rigore della materia disciplianare il comma 2 stabilisce che se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l'irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l'autorita' competente, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall'irrevocabilita' della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l'atto conclusivo in relazione all'esito del giudizio penale. Sarà dunque onere del lavoratore mandato assolto agire tempestivamente per ottenere una modifica delle sanzioni disciplinari eventualmente adottate dalla amministrazione.
Diversamente se il procedimento disciplinare si conclude con l'archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l'autorita' competente riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all'esito del giudizio penale. Il procedimento disciplinare e' riaperto, altresi', se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne e' stata applicata una diversa.
Il comma 4 si occupa di questioni procedurali stabilendo che nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3 il procedimento disciplinare e', rispettivamente, ripreso o riaperto entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza all'amministrazione di appartenenza del lavoratore ovvero dalla presentazione dell'istanza di riapertura ed e' concluso entro centottanta giorni dalla ripresa o dalla riapertura.
La ripresa o la riapertura avvengono mediante il rinnovo della contestazione dell'addebito da parte dell'autorita' disciplinare competente ed il procedimento prosegue secondo quanto previsto nell'articolo 55-bis. Ai fini delle determinazioni conclusive, l'autorita' procedente, nel procedimento disciplinare ripreso o riaperto, applica le disposizioni dell'art 653 commi 1 ed 1-bis, del codice di procedura penale che si occupa dell'efficacia della sentenza penale nel procedimento disciplinare.
Dott. Giangiacomo Magni RETELEGALE PISA
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martedì 26 gennaio 2010
Non posso che confessare, non solo a posteriori, la seria titubanza nell'aver accettato, proprio un anno fa, la difesa di una lavoratrice la quale, assunta presso una società di medie dimensioni, con un contratto a tempo determinato per ragioni di sostituzione di altra lavoratrice avente diritto alla conservazione del posto era stata, al rientro della lavoratrice, rimandata a casa con la classica quanto penosa letterina di parte datoriale del seguente tenore: "Tante grazie, non abbiamo più bisogno di lei. Il nostro rapporto è da intendersi cessato".
La remora, non consisteva tanto, ovviamente, nell'oggetto del contendere, ma nella grave difficoltà di dare una risposta alla cliente alla classica quanto fatidica domanda "Avvocato, che speranze ho di ritornare a lavorare?".
Non è un mistero che il tempo che viviamo è costellato da una miriade di incertezze che, soprattutto negli ultimi anni, hanno avuto una crescita esponenziale in tutti i campi, non lasciando indenne il mondo del diritto.
Ricordo, in virtù di un'esperienza ultradecennale nel campo del diritto, che fino a qualche anno addietro riuscivo a soddisfare la fatidica domanda del cliente in merito all'eventuale esito giudiziale e se esso, alla luce dei fatti e della giurisprudenza, si palesasse positivo o negativo.
Oggi non è più così e chi vive quotidianamente i Tribunali lo sa bene. Spesso casi analoghi vengono risolti in materia diametralmente opposta a seconda di chi si assume la paternità di decidere. Intendiamoci, non è uno sfogo dei confronti dei giudici, ma semplicemente la stigmatizzazione di un dato di fatto: essendo meno univoca la giurisprudenza di cassazione ed essendo le leggi sempre più di difficile interpretazione il risultato non può che essere quello di creare un marasma di sentenze contraddittorie che dipendono molto, moltissimo, fin troppo, dalla sola opinione del Giudicante.
Emblema di tale situazione è l'interpretazione data dai Giudici del Lavoro sparsi in tutta Italia sulla annosa questione dei contratti di lavoro a tempo determinato in ragione di sostituzione di lavoratori aventi il diritto alla conservazione del posto.
La norma ormai abrogata dal Decreto legislativo 368/2001, contenuta nella legge 230/1962 prevedeva espressamente l'obbligo scritto di parte datoriale di indicare nel contratto di lavoro con il "precario" il nome del lavoratore da sostituire, le ragioni della sostituzione e, infine, la data finale del rapporto a termine.
Sta di fatto che, il legislatore, con la legge del 2001, ha compiuto una scelta alquanto discutibile subito, neanche a dirlo, sfruttata nel modo più bieco da alcune parti datoriali, di indicare sì l'esigenza della sostituzione, escludendo però dal testo della norma contenuta nell'art. 1 l'obbligo precipuo di specificare dettagliatamente la ragione, il nome del lavoratore sostituito, e il termine. Pertanto, i nuovi contratti susseguitesi a far data dal 2001, contenevano espressamente l'assunzione del precario limitandosi ad indicare molto vanamente che l'assunzione a termine era determinata da ragioni sostitutive di personale avente diritto alla conservazione del posto e che il rapporto sarebbe cessato al rientro del lavoratore sostituito e questo era proprio il caso rappresentatomi dalla mia cliente nel febbraio scorso e che, pur non confortata dalla mia risposta sull'esito incerto del giudizio, ha comunque deciso di proporre ricorso al Giudice del Lavoro.
Orbene, fino al mese di luglio del 2009, moltissimi tribunali ritenevano la portata del Decreto legislativo del 2001 meno restrittiva dell'abrogata legge 230/1962 respingendo le istanze dei lavoratori che impugnando il contratto a termine si dolevano della mancata indicazione degli elementi sopra descritti richiedendo quale conseguenza del mancato rispetto della norma l'assunzione a tempo indeterminato.
La Corte Costituzionale con ordinanza del luglio del 2009, pur rigettando la questione di legittimità costituzione sollevata da moltissimi tribunali in ordine proprio all'art. 1 del D. lgs. 368/2001 alla sua formulazione e alla scarsa tutela che riservava ai lavoratori, ha finalmente posto un paletto chiarificatore sostenendo, in soldoni, che in ordine alla necessità specifica dell'indicazione del lavoratore da sostituire, alla ragione e al termine, nulla era innovato rispetto alla vecchia disciplina contenuta nella legge 230/1962.
Sempre la Corte costituzionale, con altra ordinanza del 04/12/2009 ha ribadito le considerazioni sopra riportate dando finalmente un chiarimento certo all'indirizzo che i giudicanti devono seguire: tutti i contratti di sostituzione sprovvisti del nome del lavoratore che ha diritto alla conservazione del posto, della ragione specifica della sostituzione e del termine di fine del rapporto sono comunque nulli nella parte in cui indicano un termine finale e il contratto deve necessariamente essere convertito a tempo indeterminato, a nulla valendo un controllo a posteriori da parte del Giudice nel controllare se l'esigenza rappresentata in giudizio dal datore di lavoro abbia o meno effettivo riscontro.
Recente esempio di questa applicazione è la sentenza del Tribunale di Marsala del 15/01/2010 ancora in corso di pubblicazione, con la quale la mia cliente ha avuto ragione della sua domanda giudiziale, ottenendo l'obbligo di essere riassunta, tutte le retribuzioni dalla data di messa in mora e l'assunzione a tempo indeterminato per la nullità del termine apposto nel contratto di lavoro.
Una grande vittoria ma, soprattutto, l'applicazione pratica di una tutela del diritto dei lavoratori disapplicata per troppo tempo in virtù di una pessima interpretazione della norma.
Avv. Giuseppe Lentini - Retelegale Agrigento
Avv. Giuseppe Lentini - Retelegale Agrigento
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giovedì 21 gennaio 2010
Recentemente, si sono registrate, sulla questione in oggetto, una pluralità di pronunce che hanno riconosciuto, in contrasto con un primo orientamento, il diritto delle organizzazioni sindacali, non firmatarie del c.c.n.l., a percepire il versamento dei contributi sindacali, per tramite dell’istituto della cessione di credito.
Invero, sia la Corte di Appello di Torino (Corte di Appello di Torino sentenza n. 24-2009), sia il Tribunale Ordinario di Firenze (Tribunale Firenze, Dott. Bazzoffi, 08 giugno 2006) sia il Tribunale Ordinario di Velletri (Tribunale Velletri decreto 04 giugno 2009; decreto 20 ottobre 2009), sia il Tribunale Ordinario di Roma (T. Roma 16 novembre 2007; T. Roma sent. 23 giugno 2008; T. Roma decr. 05 maggio 2009), sia il Tribunale Ordinario di Torino (Tribunale Torino 17 dicembre 2005; Tribunale Torino, Dott.ssa Visaggi, 16 giugno-12 agosto 2006), che il Tribunale di Bologna, sezione fallimentare (Trib. Bologna sez. fall. decr. 29 aprile 2009) hanno concordemente affermato che il D.P.R. 180-1950, nella versione novellata non pone un generale divieto di cessione, consentendo, per tramite dell’articolo 52, ai lavoratori dipendenti di utilizzare lo strumento della cessione del credito per il versamento dei contributi sindacali.
Alla luce di ciò, sembra opportuno ricostruire, seppur brevemente, la questione in oggetto, partendo dall’esame delle alterne vicende giudiziarie, conclusesi con la nota pronuncia a sezioni unite.
Come è noto, la Corte di Legittimità, con le pronunce del 3 febbraio 2004 n. 1968 e del 3 giugno 2004 n. 10616, avevano totalmente disatteso l’asserita riconduzione dei contributi sindacali nell’alveo dell’istituto della cessione di credito. Ciononostante, la medesima Corte di legittimità, con le pronunce del 24 febbraio 2004 n. 14032 e del 26 luglio 2004 n. 14032, ebbe modo di correggere il pregresso orientamento, così riconoscendo l’utilizzabilità dello strumento della cessione di credito, con argomentazioni che appaiono, ad opinione di chi scrive, ben più coerenti sia, con la volontà che venne espressa dai proponenti il referendum e che venne posteriormente consacrata dal Giudice delle Leggi sia, con i principi insiti nel nostro ordinamento giuridico , tra cui “l’interesse, legislativamente protetto (ex art. 26, I comma, L. 300-1970), del sindacato a ricevere le quote sindacali”, e il principio costituzionale del libero esercizio e sviluppo dell’attività sindacale.
Invero, sembra che la Corte di Legittimità, dichiarando l’utilizzabilità dell’istituto della cessione, abbia correttamente riportato l’intera vicenda nel solco delineato dal Costituente, così elidendo qualsivoglia “discrimen” tra sindacati firmatari e non del contratto collettivo di diritto comune e, in tal guisa, riconoscendo il diritto del lavoratore a sostenere il sindacato prescelto come il più vicino alle proprie inclinazioni .
Certo è che, la Corte di Legittimità, in funzione di nomofilachia, ha posto fine al surriferito contrasto giurisprudenziale, legittimando il ricorso, da parte dei lavoratori, all’istituto civilistico della cessione del credito: “Il referendum del 1995, abrogativo del secondo comma dell’art. 26 della L. 300 del 1970 non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo. Pertanto, ben possono i lavoratori nell’esercizio della propria autonomia privata ed attraverso lo strumento della cessione del credito in favore del sindacato –cessione che non richiede in via generale il consenso del debitore- richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato stesso…”.
Principio, questo, che è stato successivamente, alla pronunzia resa a Sezioni Unite, ribadito dalla stessa Corte di Cassazione in tre distinte e successive pronunce. D’altronde, se così non fosse si attribuirebbero al referendum effetti propositivi, che, come è noto, sono alieni con la natura dell’istituto.
Pur tuttavia, essendo la Corte di Cassazione a sezioni unite intervenuta su fattispecie anteriore alla novellazione operata al D.P.R. 150-1980, si pose, immediatamente, il problema di verificare se l’impianto normativo della 180-1950, come risultante dalla novellazione ed interpolazione operata dapprima dal legislatore della 311-2004 e successivamente dal legislatore della 80-2005, abbia o meno posto in essere un generale divieto di cessione, ad esclusione di quelli mirati ad estinguere i prestiti contratti con istituti finanziari autorizzati.
Dopo un primo iniziale momento (pronunce del T. Torino, Ascoli Piceno e Novara), la giurisprudenza di merito, rilevando che la ratio del d.p.r. 180-1950, come risultante dalle modifiche introdotte dal legislatore della 2004 e della 2005, risiede nella esigenza di contrastare efficacemente il fenomeno dell’usura ed osservando che l’articolo 52, del d.p.r. 180-1950, non opera alcun riferimento, né esplicito né implicito, ai prestiti contratti, ha mutato radicalmente indirizzo, così riconoscendo l’ammissibilità del pagamento dei contributi sindacali per tramite della cessione di credito.
Di certo, il contrasto esistente in sede giurisprudenziale rende auspicabile una pronuncia della Corte di Cassazione al fine di rimuovere qualsivoglia dubbio sulla praticabilità dell’istituto della cessione quale mezzo teso a consentire alle organizzazioni non firmatarie il conseguimento dei contributi sindacali.
Vincenzo Caponera - Rete Legale Roma
Invero, sia la Corte di Appello di Torino (Corte di Appello di Torino sentenza n. 24-2009), sia il Tribunale Ordinario di Firenze (Tribunale Firenze, Dott. Bazzoffi, 08 giugno 2006) sia il Tribunale Ordinario di Velletri (Tribunale Velletri decreto 04 giugno 2009; decreto 20 ottobre 2009), sia il Tribunale Ordinario di Roma (T. Roma 16 novembre 2007; T. Roma sent. 23 giugno 2008; T. Roma decr. 05 maggio 2009), sia il Tribunale Ordinario di Torino (Tribunale Torino 17 dicembre 2005; Tribunale Torino, Dott.ssa Visaggi, 16 giugno-12 agosto 2006), che il Tribunale di Bologna, sezione fallimentare (Trib. Bologna sez. fall. decr. 29 aprile 2009) hanno concordemente affermato che il D.P.R. 180-1950, nella versione novellata non pone un generale divieto di cessione, consentendo, per tramite dell’articolo 52, ai lavoratori dipendenti di utilizzare lo strumento della cessione del credito per il versamento dei contributi sindacali.
Alla luce di ciò, sembra opportuno ricostruire, seppur brevemente, la questione in oggetto, partendo dall’esame delle alterne vicende giudiziarie, conclusesi con la nota pronuncia a sezioni unite.
Come è noto, la Corte di Legittimità, con le pronunce del 3 febbraio 2004 n. 1968 e del 3 giugno 2004 n. 10616, avevano totalmente disatteso l’asserita riconduzione dei contributi sindacali nell’alveo dell’istituto della cessione di credito. Ciononostante, la medesima Corte di legittimità, con le pronunce del 24 febbraio 2004 n. 14032 e del 26 luglio 2004 n. 14032, ebbe modo di correggere il pregresso orientamento, così riconoscendo l’utilizzabilità dello strumento della cessione di credito, con argomentazioni che appaiono, ad opinione di chi scrive, ben più coerenti sia, con la volontà che venne espressa dai proponenti il referendum e che venne posteriormente consacrata dal Giudice delle Leggi sia, con i principi insiti nel nostro ordinamento giuridico , tra cui “l’interesse, legislativamente protetto (ex art. 26, I comma, L. 300-1970), del sindacato a ricevere le quote sindacali”, e il principio costituzionale del libero esercizio e sviluppo dell’attività sindacale.
Invero, sembra che la Corte di Legittimità, dichiarando l’utilizzabilità dell’istituto della cessione, abbia correttamente riportato l’intera vicenda nel solco delineato dal Costituente, così elidendo qualsivoglia “discrimen” tra sindacati firmatari e non del contratto collettivo di diritto comune e, in tal guisa, riconoscendo il diritto del lavoratore a sostenere il sindacato prescelto come il più vicino alle proprie inclinazioni .
Certo è che, la Corte di Legittimità, in funzione di nomofilachia, ha posto fine al surriferito contrasto giurisprudenziale, legittimando il ricorso, da parte dei lavoratori, all’istituto civilistico della cessione del credito: “Il referendum del 1995, abrogativo del secondo comma dell’art. 26 della L. 300 del 1970 non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo. Pertanto, ben possono i lavoratori nell’esercizio della propria autonomia privata ed attraverso lo strumento della cessione del credito in favore del sindacato –cessione che non richiede in via generale il consenso del debitore- richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato stesso…”.
Principio, questo, che è stato successivamente, alla pronunzia resa a Sezioni Unite, ribadito dalla stessa Corte di Cassazione in tre distinte e successive pronunce. D’altronde, se così non fosse si attribuirebbero al referendum effetti propositivi, che, come è noto, sono alieni con la natura dell’istituto.
Pur tuttavia, essendo la Corte di Cassazione a sezioni unite intervenuta su fattispecie anteriore alla novellazione operata al D.P.R. 150-1980, si pose, immediatamente, il problema di verificare se l’impianto normativo della 180-1950, come risultante dalla novellazione ed interpolazione operata dapprima dal legislatore della 311-2004 e successivamente dal legislatore della 80-2005, abbia o meno posto in essere un generale divieto di cessione, ad esclusione di quelli mirati ad estinguere i prestiti contratti con istituti finanziari autorizzati.
Dopo un primo iniziale momento (pronunce del T. Torino, Ascoli Piceno e Novara), la giurisprudenza di merito, rilevando che la ratio del d.p.r. 180-1950, come risultante dalle modifiche introdotte dal legislatore della 2004 e della 2005, risiede nella esigenza di contrastare efficacemente il fenomeno dell’usura ed osservando che l’articolo 52, del d.p.r. 180-1950, non opera alcun riferimento, né esplicito né implicito, ai prestiti contratti, ha mutato radicalmente indirizzo, così riconoscendo l’ammissibilità del pagamento dei contributi sindacali per tramite della cessione di credito.
Di certo, il contrasto esistente in sede giurisprudenziale rende auspicabile una pronuncia della Corte di Cassazione al fine di rimuovere qualsivoglia dubbio sulla praticabilità dell’istituto della cessione quale mezzo teso a consentire alle organizzazioni non firmatarie il conseguimento dei contributi sindacali.
Vincenzo Caponera - Rete Legale Roma
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venerdì 15 gennaio 2010
Qualche mese fa ho avuto modo di leggere una sentenza che mi è rimasta in testa e che, nel tempo, mi ha portato a sviluppare alcune considerazioni su di un argomento assai delicato -rapporti tra coniugi separati allorchè gli stessi abbiano comunque in comune figli minori- che intendo condividere.
Si tratta della sentenza n°27995 pronunciata dalla Corte di Cassazione l'8 luglio 2009 in cui si sancisce la penale responsabilità del genitore il quale, nominato affidatario del minore, si oppone al mantenimento dei rapporti di quest'ultimo con l'altro genitore.
Per quanto la decisione in oggetto sia senza dubbio apprezzabile, mi chiedo tuttavia se la stessa possa costituire il massimo della tutela giurisdizionale accordata ai minori o se, diversamente, si potrebbe e si dovrebbe fare di più.
Mi spiego meglio.
Se da un lato la Suprema Corte ha riconosciuto l'essenzialità della figura materna e paterna per il corretto sviluppo psico-fisico del minore, dall'altro, la penale responsabilità del genitore affidatario è stata dichiarata in relazione alla figura di reato di cui all'art. 388 c.p. ossia, per la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del Giudice.
In buona sostanza quindi, a fronte della lesione di un diritto estremamente importante del minore quale quello a vedersi garantito un corretto sviluppo della personalità grazie all'intervento di entrambi i genitori, il genitore affidatario è stato condannato unicamente per non aver ottemperato ad una disposizione impartita dall'Autorità Giudiziaria.
Se questo è il quadro dei fatti ritengo che il tutto sia assolutamente insufficiente a fornire efficace ed effettiva tutela dei diritti dei minori.
Come si può reagire alla lesione di un diritto della persona ricorrendo ad una norma inserita nell'ambito dei delitti contro l'amministrazione della giustizia e che, per di più, prevede la pena alternativa della reclusione fino a tre anni (e quindi si va da un minimo di quindici giorni a tre anni) o della multa da 103,00 a 1.032,00 euro? Quale può essere la portata specialpreventiva di una norma del genere a fronte della indubbia ostinazione palesata da coniugi il cui unico interesse è quello di ferire ad ogni costo il proprio ex partner ricorrendo alla strumentalizzazione dei minori senza alcuno scrupolo?
Può dirsi sufficiente la tutela dei minori accordata in sede civile dall'Art. 709 ter c.p.p.?
A questo punto, considerato che l'istituto della separazione compirà proprio quest'anno i suoi primi quarant'anni e che ormai si può affermare con sufficente certezza l'assoluta incidenza dello stesso al mutamento radicale della società in genere e della famiglia in particolare, ritengo che, se si vuole fornire piena ed effettiva tutela dei diritti dei figli minori di genitori separati è necessario procedere ad una riforma che, per quanto difficile e delicata, possa giungere all'introduzione di una specifica figura di reato di pericolo il cui bene giuridico tutelato sia costituito al contempo dal corretto sviluppo della personalità del minore e dalla tutela della figura genitoriale e la cui sanzione sia fissata in limiti edittali capaci di far riflettere anche i genitori più riottosi.
Non che quanto sto prospettando sia semplice ma, certamente, è a mio avviso necessario.
D'altronde, se si considera che solo tredici anni orsono il legislatore è riuscito a “trasferire” gli abusi sessuali dalla sfera dei reati contro la morale nell'alveo dei reati contro la persona, mi chiedo quanto tempo ancora sarà necessario per maturare la consapevolezza di dover intervenire con la massima efficacia su di un aspetto di così ampia portata.
Di seguito, tratta dall'URL http://www.altalex.com/index.php?idnot=48508, riporto il testo letterale della sentenza da cui ha tratto spunto questo mio post.
Avv. Massimiliano Ferretti. Retelegale Livorno
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 8 luglio 2009, n. 27995
Fatto e diritto
1 - Il Tribunale di Agrigento - sezione di Canicattì -, con sentenza 22/3/2005, dichiarava L. F. colpevole del reato di cui all’art. 388 c.p. (per avere eluso il provvedimento del giudice civile in ordine all’affidamento del figlio minore A., impedendo al padre, G. L., di tenerlo con sé nel periodo stabilito) e la assolveva dal reato di tentata violenza privata (per avere tentato di costringere il marito, con la minaccia di non fargli vedere il figlio, a corrispondergli l’assegno mensile stabilito in sede di separazione) perché il fatto non sussiste.
2 - La Corte d’Appello di Palermo, investita dai gravami dell’imputata e del P.G., con sentenza 23/11/2005, riformando in parte la decisione di primo grado, dichiarava la F. colpevole anche di tentato esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.), cosi qualificata l’originaria imputazione ex artt. 56-610 c.p., unificava i due reati sotto il vincolo della continuazione, rideterminava la pena, tenuto conto delle già concesse attenuanti generiche, in giorni venti di reclusione, sostituiti con euro 760,00 di multa, e confermava nel resto la pronuncia impugnata.
3 - Ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, lamentando la violazione della legge penale e il vizio di motivazione: a) quanto al reato di cui all’art. 388 c.p., ha stigmatizzato lo scarso interesse del L. ad intrattenere rapporti significativi col figlio, tanto che quest’ultimo, a lei affidato, non aveva dimostrato alcuna disponibilità ad allontanarsi, nel mese di ( …) dal suo ambiente abituale, sicché la scelta da lei fatta era stata determinata dalla sola ragione di evitare un trauma al bambino; b) quanto al reato di cui agli artt. 56-393 c.p., nessuna prova affidabile era stata acquisita.
Il ricorso non è fondato.
Rileva la Corte, in ordine alla prima doglianza, che l’elusione dell’esecuzione del provvedimento giurisdizionale adottato in sede di separazione dei coniugi si realizza anche attraverso la mancata ottemperanza al provvedimento medesimo. “Eludere”, infatti, significa frustrare, rendere vane le legittime pretese altrui e ciò anche attraverso una mera omissione, che, nella specie, è consistita nel rifiuto della F., alla quale era affidato il bambino, di far sì che lo stesso trascorresse col padre il periodo di vacanza prestabilito. L’asserito esercizio del diritto-dovere di avere agito esclusivamente nell’interesse del minore, che avrebbe manifestato indisponibilità ad allontanarsi, sia pure temporaneamente, dal suo ambiente abituale, è rimasto indimostrato. Non va, peraltro, sottaciuto che rientra nei doveri del genitore affidatario quello di favorire, a meno che sussistano contrarie indicazioni di particolare gravità, il rapporto del figlio con l’altro genitore, e ciò proprio perché entrambe le figure genitoriali sono centrali e determinanti per la crescita equilibrata del minore. L’ostacolare gli incontri tra padre e figlio, fino a recidere ogni legame tra gli stessi, può avere effetti deleteri sull’equilibrio psicologico e sulla formazione della personalità del secondo.
Non risulta che la F. si sia mossa nella direzione che il suo dovere di madre, a prescindere da spinte egoistiche, le imponeva a tutela della posizione del figlio, né risulta una situazione che rendeva impraticabile l’affidamento, sia pure temporaneo, del minore al padre, situazione che, peraltro, se reale, avrebbe dovuto essere rappresentata tempestivamente alla competente Autorità Giudiziaria per gli opportuni provvedimenti.
La seconda censura è assolutamente generica e non idonea a porre in crisi gli argomenti che il Giudice a quo ha posto a base del ritenuto reato di cui agli artt. 56-393 c.p., provato dalla precisa e attendibile testimonianza del L., destinatario della telefonata ricattatoria da parte della moglie, che, per indurlo a rispettare più puntualmente i suoi obblighi di natura economica, aveva minacciato di ostacolare in ogni modo gli incontri tra padre e figlio, circostanza quest’ultima che rappresenta - tra l’altro - una ulteriore conferma della fondatezza del primo capo d’accusa.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato. Consegue, di diritto, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali
Si tratta della sentenza n°27995 pronunciata dalla Corte di Cassazione l'8 luglio 2009 in cui si sancisce la penale responsabilità del genitore il quale, nominato affidatario del minore, si oppone al mantenimento dei rapporti di quest'ultimo con l'altro genitore.
Per quanto la decisione in oggetto sia senza dubbio apprezzabile, mi chiedo tuttavia se la stessa possa costituire il massimo della tutela giurisdizionale accordata ai minori o se, diversamente, si potrebbe e si dovrebbe fare di più.
Mi spiego meglio.
Se da un lato la Suprema Corte ha riconosciuto l'essenzialità della figura materna e paterna per il corretto sviluppo psico-fisico del minore, dall'altro, la penale responsabilità del genitore affidatario è stata dichiarata in relazione alla figura di reato di cui all'art. 388 c.p. ossia, per la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del Giudice.
In buona sostanza quindi, a fronte della lesione di un diritto estremamente importante del minore quale quello a vedersi garantito un corretto sviluppo della personalità grazie all'intervento di entrambi i genitori, il genitore affidatario è stato condannato unicamente per non aver ottemperato ad una disposizione impartita dall'Autorità Giudiziaria.
Se questo è il quadro dei fatti ritengo che il tutto sia assolutamente insufficiente a fornire efficace ed effettiva tutela dei diritti dei minori.
Come si può reagire alla lesione di un diritto della persona ricorrendo ad una norma inserita nell'ambito dei delitti contro l'amministrazione della giustizia e che, per di più, prevede la pena alternativa della reclusione fino a tre anni (e quindi si va da un minimo di quindici giorni a tre anni) o della multa da 103,00 a 1.032,00 euro? Quale può essere la portata specialpreventiva di una norma del genere a fronte della indubbia ostinazione palesata da coniugi il cui unico interesse è quello di ferire ad ogni costo il proprio ex partner ricorrendo alla strumentalizzazione dei minori senza alcuno scrupolo?
Può dirsi sufficiente la tutela dei minori accordata in sede civile dall'Art. 709 ter c.p.p.?
A questo punto, considerato che l'istituto della separazione compirà proprio quest'anno i suoi primi quarant'anni e che ormai si può affermare con sufficente certezza l'assoluta incidenza dello stesso al mutamento radicale della società in genere e della famiglia in particolare, ritengo che, se si vuole fornire piena ed effettiva tutela dei diritti dei figli minori di genitori separati è necessario procedere ad una riforma che, per quanto difficile e delicata, possa giungere all'introduzione di una specifica figura di reato di pericolo il cui bene giuridico tutelato sia costituito al contempo dal corretto sviluppo della personalità del minore e dalla tutela della figura genitoriale e la cui sanzione sia fissata in limiti edittali capaci di far riflettere anche i genitori più riottosi.
Non che quanto sto prospettando sia semplice ma, certamente, è a mio avviso necessario.
D'altronde, se si considera che solo tredici anni orsono il legislatore è riuscito a “trasferire” gli abusi sessuali dalla sfera dei reati contro la morale nell'alveo dei reati contro la persona, mi chiedo quanto tempo ancora sarà necessario per maturare la consapevolezza di dover intervenire con la massima efficacia su di un aspetto di così ampia portata.
Di seguito, tratta dall'URL http://www.altalex.com/index.php?idnot=48508, riporto il testo letterale della sentenza da cui ha tratto spunto questo mio post.
Avv. Massimiliano Ferretti. Retelegale Livorno
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 8 luglio 2009, n. 27995
Fatto e diritto
1 - Il Tribunale di Agrigento - sezione di Canicattì -, con sentenza 22/3/2005, dichiarava L. F. colpevole del reato di cui all’art. 388 c.p. (per avere eluso il provvedimento del giudice civile in ordine all’affidamento del figlio minore A., impedendo al padre, G. L., di tenerlo con sé nel periodo stabilito) e la assolveva dal reato di tentata violenza privata (per avere tentato di costringere il marito, con la minaccia di non fargli vedere il figlio, a corrispondergli l’assegno mensile stabilito in sede di separazione) perché il fatto non sussiste.
2 - La Corte d’Appello di Palermo, investita dai gravami dell’imputata e del P.G., con sentenza 23/11/2005, riformando in parte la decisione di primo grado, dichiarava la F. colpevole anche di tentato esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.), cosi qualificata l’originaria imputazione ex artt. 56-610 c.p., unificava i due reati sotto il vincolo della continuazione, rideterminava la pena, tenuto conto delle già concesse attenuanti generiche, in giorni venti di reclusione, sostituiti con euro 760,00 di multa, e confermava nel resto la pronuncia impugnata.
3 - Ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, lamentando la violazione della legge penale e il vizio di motivazione: a) quanto al reato di cui all’art. 388 c.p., ha stigmatizzato lo scarso interesse del L. ad intrattenere rapporti significativi col figlio, tanto che quest’ultimo, a lei affidato, non aveva dimostrato alcuna disponibilità ad allontanarsi, nel mese di ( …) dal suo ambiente abituale, sicché la scelta da lei fatta era stata determinata dalla sola ragione di evitare un trauma al bambino; b) quanto al reato di cui agli artt. 56-393 c.p., nessuna prova affidabile era stata acquisita.
Il ricorso non è fondato.
Rileva la Corte, in ordine alla prima doglianza, che l’elusione dell’esecuzione del provvedimento giurisdizionale adottato in sede di separazione dei coniugi si realizza anche attraverso la mancata ottemperanza al provvedimento medesimo. “Eludere”, infatti, significa frustrare, rendere vane le legittime pretese altrui e ciò anche attraverso una mera omissione, che, nella specie, è consistita nel rifiuto della F., alla quale era affidato il bambino, di far sì che lo stesso trascorresse col padre il periodo di vacanza prestabilito. L’asserito esercizio del diritto-dovere di avere agito esclusivamente nell’interesse del minore, che avrebbe manifestato indisponibilità ad allontanarsi, sia pure temporaneamente, dal suo ambiente abituale, è rimasto indimostrato. Non va, peraltro, sottaciuto che rientra nei doveri del genitore affidatario quello di favorire, a meno che sussistano contrarie indicazioni di particolare gravità, il rapporto del figlio con l’altro genitore, e ciò proprio perché entrambe le figure genitoriali sono centrali e determinanti per la crescita equilibrata del minore. L’ostacolare gli incontri tra padre e figlio, fino a recidere ogni legame tra gli stessi, può avere effetti deleteri sull’equilibrio psicologico e sulla formazione della personalità del secondo.
Non risulta che la F. si sia mossa nella direzione che il suo dovere di madre, a prescindere da spinte egoistiche, le imponeva a tutela della posizione del figlio, né risulta una situazione che rendeva impraticabile l’affidamento, sia pure temporaneo, del minore al padre, situazione che, peraltro, se reale, avrebbe dovuto essere rappresentata tempestivamente alla competente Autorità Giudiziaria per gli opportuni provvedimenti.
La seconda censura è assolutamente generica e non idonea a porre in crisi gli argomenti che il Giudice a quo ha posto a base del ritenuto reato di cui agli artt. 56-393 c.p., provato dalla precisa e attendibile testimonianza del L., destinatario della telefonata ricattatoria da parte della moglie, che, per indurlo a rispettare più puntualmente i suoi obblighi di natura economica, aveva minacciato di ostacolare in ogni modo gli incontri tra padre e figlio, circostanza quest’ultima che rappresenta - tra l’altro - una ulteriore conferma della fondatezza del primo capo d’accusa.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato. Consegue, di diritto, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali
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FAMIGLIA
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lunedì 11 gennaio 2010
Acqua, neve, freddo e bufera. L'anno nuovo porta in dote i classici "mal di stagione". Tuttavia, dopo la bufaliadi giocate intorno all'influenza A, c'è un altro e ben più pericoloso virus che minaccia la nostra salute. Quella che ci sta colpendo è l'epidemia X, X come xenofobia-razzismo-intolleranza-paura..Chiamatela come vi pare, ma, vi prego, chiamatela: non facciamo finta che si tratti di episodi isolati o di una "normale e comprensibile" reazione a certi fenomeni sociali.
Non mi perdo nel raccontarvi i perché o i per come (o meglio, stavolta si, gli x-ché e gli x-come)di questo male, non ne sarei capace, ma non credo che non ci possa essere inizio migliore per questo blog che parlare di una piccola ma concreta "terapia".
Il primo marzo avremo la possibilità di accompagnare il risveglio della primavera con una risveglio della nostra dignità...
Questo stavo scrivendo quando Rosarno esonda in tutti i media e trascina con se il fiume caldo delle reazioni politiche. Tante, di ogni tono, forma e colore. Tutte semplicemente inutili. Sappiamo bene qual è l'approccio politico al tema immigrazione.
Dopo questi fatti, forse, è ancora più importante fissare la data del primo marzo. In questo giorno infatti si terrà una manifestazione di rifiuto del razzismo e di ogni conseguente discriminazione in contemporanea con la Francia.
Vale la pena spendersi perchè questo piccolo segnale, questo sciopero riesca a manifestare la nostra contrarietà verso la criminalizzazione dello straniero (operazione finalmente riuscita con l'emanazione dell'ultimo pacchetto sicurezza) e la conseguente riduzione in una condizione di continua ricattabilità e facile sfruttamento di chi è costretto a lavorare senza la prospettiva di una progressiva integrazione.
Almeno per un giorno, rompere questa catena, questo flusso che pone lo straniero alla base di molti processi produttivi senza riconoscimento dei diritti di ogni lavoratore e, prima ancora, di ogni uomo.
Da qui infine parte l'appello a tutte le realtà fiorentine perchè si realizzi un comitato locale per la preparazione a questa giornata speciale.
Buon anno quindi, anzi..Buono Sciopero!!
Avv. Gianni Mannucci Retelegale Firenze
Non mi perdo nel raccontarvi i perché o i per come (o meglio, stavolta si, gli x-ché e gli x-come)di questo male, non ne sarei capace, ma non credo che non ci possa essere inizio migliore per questo blog che parlare di una piccola ma concreta "terapia".
Il primo marzo avremo la possibilità di accompagnare il risveglio della primavera con una risveglio della nostra dignità...
Questo stavo scrivendo quando Rosarno esonda in tutti i media e trascina con se il fiume caldo delle reazioni politiche. Tante, di ogni tono, forma e colore. Tutte semplicemente inutili. Sappiamo bene qual è l'approccio politico al tema immigrazione.
Dopo questi fatti, forse, è ancora più importante fissare la data del primo marzo. In questo giorno infatti si terrà una manifestazione di rifiuto del razzismo e di ogni conseguente discriminazione in contemporanea con la Francia.
Vale la pena spendersi perchè questo piccolo segnale, questo sciopero riesca a manifestare la nostra contrarietà verso la criminalizzazione dello straniero (operazione finalmente riuscita con l'emanazione dell'ultimo pacchetto sicurezza) e la conseguente riduzione in una condizione di continua ricattabilità e facile sfruttamento di chi è costretto a lavorare senza la prospettiva di una progressiva integrazione.
Almeno per un giorno, rompere questa catena, questo flusso che pone lo straniero alla base di molti processi produttivi senza riconoscimento dei diritti di ogni lavoratore e, prima ancora, di ogni uomo.
Da qui infine parte l'appello a tutte le realtà fiorentine perchè si realizzi un comitato locale per la preparazione a questa giornata speciale.
Buon anno quindi, anzi..Buono Sciopero!!
Avv. Gianni Mannucci Retelegale Firenze
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La crisi ha fatto aumentare i pignoramenti immobiliari. Non sempre però il danno lo subisce solo il pignorato ma, a quanto pare, anche chi ha avuto la sfortuna di stipulare un contratto di locazione con qualcuno che poi subisce il pignoramento.
Fermo restando che un contratto di locazione stipulato dopo il pignoramento non è opponibile al creditore procedente, anche un contratto stipulato prima della trascrizione del pignoramento non garantisce del tutto al conduttore la possibilità di vivere tranquillo nella sua abitazione.
Pacifico in giurisprudenza che il contratto di locazione in corso alla data del pignoramento mantenga validità sino alla scadenza, ma che non possa aversi tacita riconduzione (ossia rinnovo automatico in assenza di disdetta nei termini) ma solo l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione a proseguire la locazione, parrebbe però ovvio prevedere che in assenza di autorizzazione il conduttore debba essere sfrattato secondo le regole ordinarie, onde non trovarsi in una situazione più svantaggiosa rispetto a quella del conduttore che ha stipulato con un locatore non vittima di pignoramento, situazione di cui il conduttore non è assolutamente responsabile.
Invece l'art. 586 c.p.c., al comma 2, stabilisce che il decreto di trasferimento del bene immobile pignorato è anche titolo esecutivo per il rilascio e quindi utilizzabile in danno del conduttore alla stregua di una convalida di sfratto.
In tale senso il Tribunale di Torino, con ordinanza 1.4.09 (R.G. nー3524/09,inedita).
Assolutamente non convincente appare l'argomentazione secondo cui in assenza di tacita riconduzione il decreto di trasferimento sarebbe utilizzabile quale titolo esecutivo anche in danno del conduttore di alloggio in forza di contratto stipulato (e registrato) anteriormente al pignoramento. Come detto il conduttore che abbia stipulato con un locatore poi vittima di pignoramento risulta infatti subordinato ad un procedimento di rilascio rispetto al quale non ha né possibilità di contraddire né tanto meno modo di far valere eventuali vizi del contratto o comunque questioni che possono il qualche modo influire sulla sua durata ed eventualmente postergare il termine di scadenza. Ciò pare integrare un'ipotesi di illegittimità costituzionale dell'art. 586 c.p.c., comma 2, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., questione sollevata nel citato procedimento e sbrigativamente risolta dal Tribunale attraverso un ultroneo riferimento all'art. 560 c.p.c., comma 2. Richiama il Tribunale la giurisprudenza della Cassazione (sez. IIIー, n. 26238/ 07 in Mass. Giust. Civ., 2007, 12) secondo cui “ ...la peculiare funzione del pignoramento nell'ambito del processo di esecuzione giustifica la particolarità della sua disciplina...”.
Pare invece poco corretto e contrario ad un'interpretazione costituzionalmente orientata (ormai sempre meno di moda!) far prevalere il diritto di credito sul ben più rilevante diritto alla casa.
Ma forse quello che vien fatto prevalere è il diritto di proprietà dell'aggiudicatario, il che è anche peggio...
Alessio Ariotto, Retelegale Torino
Fermo restando che un contratto di locazione stipulato dopo il pignoramento non è opponibile al creditore procedente, anche un contratto stipulato prima della trascrizione del pignoramento non garantisce del tutto al conduttore la possibilità di vivere tranquillo nella sua abitazione.
Pacifico in giurisprudenza che il contratto di locazione in corso alla data del pignoramento mantenga validità sino alla scadenza, ma che non possa aversi tacita riconduzione (ossia rinnovo automatico in assenza di disdetta nei termini) ma solo l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione a proseguire la locazione, parrebbe però ovvio prevedere che in assenza di autorizzazione il conduttore debba essere sfrattato secondo le regole ordinarie, onde non trovarsi in una situazione più svantaggiosa rispetto a quella del conduttore che ha stipulato con un locatore non vittima di pignoramento, situazione di cui il conduttore non è assolutamente responsabile.
Invece l'art. 586 c.p.c., al comma 2, stabilisce che il decreto di trasferimento del bene immobile pignorato è anche titolo esecutivo per il rilascio e quindi utilizzabile in danno del conduttore alla stregua di una convalida di sfratto.
In tale senso il Tribunale di Torino, con ordinanza 1.4.09 (R.G. nー3524/09,inedita).
Assolutamente non convincente appare l'argomentazione secondo cui in assenza di tacita riconduzione il decreto di trasferimento sarebbe utilizzabile quale titolo esecutivo anche in danno del conduttore di alloggio in forza di contratto stipulato (e registrato) anteriormente al pignoramento. Come detto il conduttore che abbia stipulato con un locatore poi vittima di pignoramento risulta infatti subordinato ad un procedimento di rilascio rispetto al quale non ha né possibilità di contraddire né tanto meno modo di far valere eventuali vizi del contratto o comunque questioni che possono il qualche modo influire sulla sua durata ed eventualmente postergare il termine di scadenza. Ciò pare integrare un'ipotesi di illegittimità costituzionale dell'art. 586 c.p.c., comma 2, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., questione sollevata nel citato procedimento e sbrigativamente risolta dal Tribunale attraverso un ultroneo riferimento all'art. 560 c.p.c., comma 2. Richiama il Tribunale la giurisprudenza della Cassazione (sez. IIIー, n. 26238/ 07 in Mass. Giust. Civ., 2007, 12) secondo cui “ ...la peculiare funzione del pignoramento nell'ambito del processo di esecuzione giustifica la particolarità della sua disciplina...”.
Pare invece poco corretto e contrario ad un'interpretazione costituzionalmente orientata (ormai sempre meno di moda!) far prevalere il diritto di credito sul ben più rilevante diritto alla casa.
Ma forse quello che vien fatto prevalere è il diritto di proprietà dell'aggiudicatario, il che è anche peggio...
Alessio Ariotto, Retelegale Torino
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La controversia nasce da un ricorso (n. 58858/00) presentato da tre cittadini contro lo Stato Italiano. I ricorrenti hanno investito la Corte Europea il 7 aprile 2000 ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione di Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali. Con una sentenza dell'8 dicembre 2005 la Corte aveva giudicato che l'ingerenza nel diritto al rispetto dei beni dei ricorrenti non era compatibile con il principio di legalità e che, perciò, vi era stata violazione dell'articolo 1 del protocollo n. 1 (Guiso-Gallisay c. Italia, n. 58858/00, §§ 96-97, e punto 2 del dispositivo, 8 dicembre 2005). In applicazione dell'articolo 41 della Convenzione, i ricorrenti avevano insistito per ottenere una somma corrispondente al valore dei terreni controversi, dedotta l'indennità ottenuta sul piano nazionale, ed aumentata del valore delle costruzioni realizzate sui loro terreni. Chiedevano anche una somma a titolo di rimborso dell'imposta alla fonte, imposta alla quale erano state sottoposte le somme riconosciute dal Tribunale di Nuoro il 14 luglio 1997. Sollecitavano inoltre un'indennità per danno morale e chiedevano il rimborso delle spese di giustizia impegnate dinanzi alle giurisdizioni nazionali e delle spese esposte dinanzi alla Corte europea.
Il termine fissato dalla Corte per permettere alle parti di raggiungere un accordo amichevole era scaduto però senza che le parti trovassero un accordo.
Nella sua sentenza del 21 ottobre 2008, la Camera ha proceduto ad un'inversione di giurisprudenza con riguardo all'applicazione dell'articolo 41 nei casi di espropriazione indiretta. Ricordiamo che l'art. 41 statuisce: “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa”.
Nell'ambito della pronuncia del 2008, la Camera, con sei voti contro uno, ha:
- abbandonato il metodo abituale di calcolo del risarcimento danni, fino ad allora basato sul valore di mercato attualizzato del terreno, aumentato della plusvalenza portata dagli edifici costruiti dall'espropriante;
- adottato un metodo nuovo, fondato sul valore di mercato del bene alla data in cui gli interessati hanno la certezza giuridica di avere perso il loro diritto di proprietà. Su detta somma decorrono gli interessi legali dal giorno della pronuncia della sentenza della Corte, decurtando l'indennità eventualmente già ricevuta.
La Camera ha giustificato la citata inversione con:
- il timore di introdurre disparità di trattamento tra i ricorrenti in funzione della natura dell'opera pubblica realizzata dall'amministrazione, che non ha necessariamente un legame con il potenziale del terreno nella sua qualità originaria;
- la preoccupazione non di lasciare posto all'arbitrio;
- il rifiuto di attribuire alla compensazione uno scopo punitivo o dissuasivo per lo Stato, in luogo di una funzione compensativa per il ricorrente;
- il cambiamento della legislazione italiana (legge finanziaria 2007) intervenuto in seguito alle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 22 ottobre 2007, legislazione che prevede che, in caso di espropriazione indiretta, la compensazione deve corrispondere al valore venale dei beni, nessuna riduzione essendo ammessa.
La Corte ha assegnato ai ricorrenti 1.803.374 euro per danno materiale, 45.000 euro per danno morale e 30.000 euro per spese e costi.
Il 30 ottobre 2008 i ricorrenti hanno chiesto il rinvio della causa alla Grande Camera ai sensi degli articoli 43 Conv. e 73 Reg. Uno dei Collegi della Grande Camera ha accolto la domanda il 26 gennaio 2009. Riferendosi alla giurisprudenza fino ad allora consolidata della Corte, in particolare alla sentenza Scordino c. Italia (n. 3), i ricorrenti hanno chiesto alla Grande Camera di condannare lo Stato Italiano alla restituzione dei loro i terreni e, in mancanza di restituzione, che lo Stato Italiano versasse una somma equivalente al valore dei terreni nel 2009, più il costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato. In sede di commento è opportuno soffermarsi sulle varie pronunce della Corte i cui principi sono stati richiamati dai ricorrenti.
In materia di privazione arbitraria di beni, la Corte aveva iniziato il suo filone giurisprudenziale con la sentenza Papamichalopoulos ed altri c. Grecia. In tale sede era stato deciso che lo Stato resistente dovesse versare agli interessati, per l'usurpazione da parte delle autorità dei loro terreni, una somma equivalente al valore attuale di questi, aumentato della plusvalenza portata dagli edifici costruiti. Questa linea interpretativa era stata seguita nelle sentenze Belvedere Alberghiera S.r.l c. Italia ((soddisfazione equa), n. 31524/96, 30 ottobre 2003) e Carbonara e Ventura c. Italia (soddisfazione equa), n. 24638/94, 11 dicembre 2003), riguardanti sempre casi di espropriazione illegittima. In mancanza di restituzione dei terreni, la Corte aveva assegnato a titolo di danno materiale somme che prendevano in considerazione il valore attuale dei beni sul mercato immobiliare al momento dalla pronuncia della sentenza. Inoltre, aveva cercato di compensare ulteriormente le perdite subite considerando il potenziale del terreno in causa, calcolato a partire dal costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato. Questa giurisprudenza era stata ratificata dalla Grande Camera nella sentenza Scordino c. Italia (n. 1) ((GC), n. 36813/97, §§ 250-254, CEDU 2006 – V). Le sentenze Scordino c. Italia (n. 3) e Pasculli c. Italia ((soddisfazione equa), n. 36818/97, 4 dicembre 2007) avevano infine seguito ed applicato questa giurisprudenza.
La Grande Camera, con sentenza del 22 dicembre 2009, ha stabilito la necessità di applicare nuovi principi alle controversie relative alle espropriazioni illegittime. Pur riconoscendo che i ricorrenti hanno diritto al valore pieno ed intero dei beni, la Grande Camera ha ritenuto che la data da prendere in considerazione per quantificare il danno materiale non deve essere quella della pronunzia della sentenza della Corte, ma quella della perdita di proprietà dei terreni. Infatti, il precedente orientamento giurisprudenziale potrebbe lasciare posto ad un margine d' incertezza, o di arbitrio. D'altra parte, secondo la Grande Camera, il criterio adottato in precedenza -ossia quantificare il risarcimento del danno per la perdita della proprietà ed il mancato godimento del bene automaticamente corrispondente al valore delle opere costruite dallo Stato aggiunto al valore di mercato attualizzato dei terreni alla data della sentenza della Corte di Strasburgo- non trova concreta giustificazione. Questo metodo può infatti introdurre disparità di trattamento tra i ricorrenti in funzione della natura dell'opera pubblica realizzata dall'amministrazione, che non ha necessariamente un legame con il potenziale del terreno nella sua qualità originaria. Inoltre, questo metodo attribuisce alla compensazione per danno materiale uno scopo punitivo o dissuasivo nei confronti dello Stato resistente, in luogo di una funzione compensativa per i ricorrenti (come peraltro già affermato dalla Camera nella sentenza del 2008).
La Grande Camera ha ritenuto che il nuovo orientamento potrà essere applicato dalle giurisdizioni italiane alle controversie che dovranno decidere.
La Grande Camera ha dunque stabilito di non tenere più conto, per valutare il danno materiale, del costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato sui terreni ablati, riconoscendo ragionevole accordare ai ricorrenti la somma di 2.100.000 euro più ogni importo eventualmente dovuto a titolo d' imposta su questa somma.
La Corte ha ritenuto inoltre di dover prendere in considerazione il pregiudizio derivato dall'indisponibilità dei terreni per il periodo che va dall'inizio dell'occupazione (1977) al momento della perdita della proprietà (1983), assegnando ai tre ricorrenti congiuntamente 45.000 euro, importo dal quale deve essere dedotta la somma già ottenuta dai ricorrenti a livello interno a titolo di indennità d'occupazione.
Anche la sensazione d'impotenza e di frustrazione di fronte all'espropriazione illegale dei beni, avendo causato ai ricorrenti un pregiudizio morale importante, secondo la decisione in commento deve essere riparata in modo adeguato, con il riconoscimento per ogni ricorrente di 15.000 euro (45.000 euro in totale).
La Corte ha confermato che le indennità assegnate devono essere aumentate in funzione delle spese e costi supplementari causati dalla procedura dinanzi alla Grande Camera e per tale motivo ha liquidato ai ricorrenti congiuntamente 35.000 euro oltre IVA.
La Corte, infine, ha riconosciuto il tasso degli interessi moratori pari al tasso d'interesse della Banca Centrale Europea aumentato di tre punti percentuali.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
Il termine fissato dalla Corte per permettere alle parti di raggiungere un accordo amichevole era scaduto però senza che le parti trovassero un accordo.
Nella sua sentenza del 21 ottobre 2008, la Camera ha proceduto ad un'inversione di giurisprudenza con riguardo all'applicazione dell'articolo 41 nei casi di espropriazione indiretta. Ricordiamo che l'art. 41 statuisce: “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa”.
Nell'ambito della pronuncia del 2008, la Camera, con sei voti contro uno, ha:
- abbandonato il metodo abituale di calcolo del risarcimento danni, fino ad allora basato sul valore di mercato attualizzato del terreno, aumentato della plusvalenza portata dagli edifici costruiti dall'espropriante;
- adottato un metodo nuovo, fondato sul valore di mercato del bene alla data in cui gli interessati hanno la certezza giuridica di avere perso il loro diritto di proprietà. Su detta somma decorrono gli interessi legali dal giorno della pronuncia della sentenza della Corte, decurtando l'indennità eventualmente già ricevuta.
La Camera ha giustificato la citata inversione con:
- il timore di introdurre disparità di trattamento tra i ricorrenti in funzione della natura dell'opera pubblica realizzata dall'amministrazione, che non ha necessariamente un legame con il potenziale del terreno nella sua qualità originaria;
- la preoccupazione non di lasciare posto all'arbitrio;
- il rifiuto di attribuire alla compensazione uno scopo punitivo o dissuasivo per lo Stato, in luogo di una funzione compensativa per il ricorrente;
- il cambiamento della legislazione italiana (legge finanziaria 2007) intervenuto in seguito alle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 22 ottobre 2007, legislazione che prevede che, in caso di espropriazione indiretta, la compensazione deve corrispondere al valore venale dei beni, nessuna riduzione essendo ammessa.
La Corte ha assegnato ai ricorrenti 1.803.374 euro per danno materiale, 45.000 euro per danno morale e 30.000 euro per spese e costi.
Il 30 ottobre 2008 i ricorrenti hanno chiesto il rinvio della causa alla Grande Camera ai sensi degli articoli 43 Conv. e 73 Reg. Uno dei Collegi della Grande Camera ha accolto la domanda il 26 gennaio 2009. Riferendosi alla giurisprudenza fino ad allora consolidata della Corte, in particolare alla sentenza Scordino c. Italia (n. 3), i ricorrenti hanno chiesto alla Grande Camera di condannare lo Stato Italiano alla restituzione dei loro i terreni e, in mancanza di restituzione, che lo Stato Italiano versasse una somma equivalente al valore dei terreni nel 2009, più il costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato. In sede di commento è opportuno soffermarsi sulle varie pronunce della Corte i cui principi sono stati richiamati dai ricorrenti.
In materia di privazione arbitraria di beni, la Corte aveva iniziato il suo filone giurisprudenziale con la sentenza Papamichalopoulos ed altri c. Grecia. In tale sede era stato deciso che lo Stato resistente dovesse versare agli interessati, per l'usurpazione da parte delle autorità dei loro terreni, una somma equivalente al valore attuale di questi, aumentato della plusvalenza portata dagli edifici costruiti. Questa linea interpretativa era stata seguita nelle sentenze Belvedere Alberghiera S.r.l c. Italia ((soddisfazione equa), n. 31524/96, 30 ottobre 2003) e Carbonara e Ventura c. Italia (soddisfazione equa), n. 24638/94, 11 dicembre 2003), riguardanti sempre casi di espropriazione illegittima. In mancanza di restituzione dei terreni, la Corte aveva assegnato a titolo di danno materiale somme che prendevano in considerazione il valore attuale dei beni sul mercato immobiliare al momento dalla pronuncia della sentenza. Inoltre, aveva cercato di compensare ulteriormente le perdite subite considerando il potenziale del terreno in causa, calcolato a partire dal costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato. Questa giurisprudenza era stata ratificata dalla Grande Camera nella sentenza Scordino c. Italia (n. 1) ((GC), n. 36813/97, §§ 250-254, CEDU 2006 – V). Le sentenze Scordino c. Italia (n. 3) e Pasculli c. Italia ((soddisfazione equa), n. 36818/97, 4 dicembre 2007) avevano infine seguito ed applicato questa giurisprudenza.
La Grande Camera, con sentenza del 22 dicembre 2009, ha stabilito la necessità di applicare nuovi principi alle controversie relative alle espropriazioni illegittime. Pur riconoscendo che i ricorrenti hanno diritto al valore pieno ed intero dei beni, la Grande Camera ha ritenuto che la data da prendere in considerazione per quantificare il danno materiale non deve essere quella della pronunzia della sentenza della Corte, ma quella della perdita di proprietà dei terreni. Infatti, il precedente orientamento giurisprudenziale potrebbe lasciare posto ad un margine d' incertezza, o di arbitrio. D'altra parte, secondo la Grande Camera, il criterio adottato in precedenza -ossia quantificare il risarcimento del danno per la perdita della proprietà ed il mancato godimento del bene automaticamente corrispondente al valore delle opere costruite dallo Stato aggiunto al valore di mercato attualizzato dei terreni alla data della sentenza della Corte di Strasburgo- non trova concreta giustificazione. Questo metodo può infatti introdurre disparità di trattamento tra i ricorrenti in funzione della natura dell'opera pubblica realizzata dall'amministrazione, che non ha necessariamente un legame con il potenziale del terreno nella sua qualità originaria. Inoltre, questo metodo attribuisce alla compensazione per danno materiale uno scopo punitivo o dissuasivo nei confronti dello Stato resistente, in luogo di una funzione compensativa per i ricorrenti (come peraltro già affermato dalla Camera nella sentenza del 2008).
La Grande Camera ha ritenuto che il nuovo orientamento potrà essere applicato dalle giurisdizioni italiane alle controversie che dovranno decidere.
La Grande Camera ha dunque stabilito di non tenere più conto, per valutare il danno materiale, del costo di costruzione degli immobili realizzati dallo Stato sui terreni ablati, riconoscendo ragionevole accordare ai ricorrenti la somma di 2.100.000 euro più ogni importo eventualmente dovuto a titolo d' imposta su questa somma.
La Corte ha ritenuto inoltre di dover prendere in considerazione il pregiudizio derivato dall'indisponibilità dei terreni per il periodo che va dall'inizio dell'occupazione (1977) al momento della perdita della proprietà (1983), assegnando ai tre ricorrenti congiuntamente 45.000 euro, importo dal quale deve essere dedotta la somma già ottenuta dai ricorrenti a livello interno a titolo di indennità d'occupazione.
Anche la sensazione d'impotenza e di frustrazione di fronte all'espropriazione illegale dei beni, avendo causato ai ricorrenti un pregiudizio morale importante, secondo la decisione in commento deve essere riparata in modo adeguato, con il riconoscimento per ogni ricorrente di 15.000 euro (45.000 euro in totale).
La Corte ha confermato che le indennità assegnate devono essere aumentate in funzione delle spese e costi supplementari causati dalla procedura dinanzi alla Grande Camera e per tale motivo ha liquidato ai ricorrenti congiuntamente 35.000 euro oltre IVA.
La Corte, infine, ha riconosciuto il tasso degli interessi moratori pari al tasso d'interesse della Banca Centrale Europea aumentato di tre punti percentuali.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
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La Finanziaria 2010 approvata dal Senato il 22.12.09 ha apportato alcune modifiche al testo unico in materia di spese di giustizia già segnalate con il precedente post.
Per quanto riguarda il processo del lavoro è stato introdotto l'obbligo del pagamento del contributo unificato per il ricorso in Cassazione.
Si tratta della prima volta che il principio della gratuità del processo in materia di lavoro viene ad essere, seppure parzialmente (e fortunamentamente in minima parte), intaccato.
Com'é noto il principio della gratuità del processo del lavoro è stato introdotto al fine di garantire l'effettività della tutela giudiziaria del lavoratore che, sia nel rapporto sostanziale che nel rapporto processuale, non si trova (generalmente e salvo eccezioni) in condizioni di parità con il datore di lavoro e che, spesso, non ha i mezzi economici per sostenere le spese di un giudizio (pensiamo per es. ad un licenziamento ad nutum o ad un lavoratore che agisce per ottenere il pagamento delle retribuzioni non corrisposte da mesi).
L'approvazione della prima eccezione normativa al principio della gratuità del processo del lavoro (seppure solo per il giudizio in Cassazione) non può che essere giudicata inopportuna e finalizzata più che alla necessità di fare cassa (considerate le modeste somme che saranno incamerate dall'erario) a compiere un primo passo verso la totale abrogazione della norma di favore.
Difatti già nel corso del 2008 con il D.L. n°112 del 25.6.2008, fu stabilita l'abrogazione della legge n°319/58, salvo il ripensamento del governo che con il successivo D.L. n° 200 del 22.12.2008 eliminò la norma abrogatrice.
Non può che augurarsi una successiva modifica che elimini nuovamente l'onere di pagamento del contributo unificato in sede di giudizio di cassazione al fine di ristabilire l'intangibilità del principio violato.
Avv. Luca Di Francesco, Retelegale Lecce.
Per quanto riguarda il processo del lavoro è stato introdotto l'obbligo del pagamento del contributo unificato per il ricorso in Cassazione.
Si tratta della prima volta che il principio della gratuità del processo in materia di lavoro viene ad essere, seppure parzialmente (e fortunamentamente in minima parte), intaccato.
Com'é noto il principio della gratuità del processo del lavoro è stato introdotto al fine di garantire l'effettività della tutela giudiziaria del lavoratore che, sia nel rapporto sostanziale che nel rapporto processuale, non si trova (generalmente e salvo eccezioni) in condizioni di parità con il datore di lavoro e che, spesso, non ha i mezzi economici per sostenere le spese di un giudizio (pensiamo per es. ad un licenziamento ad nutum o ad un lavoratore che agisce per ottenere il pagamento delle retribuzioni non corrisposte da mesi).
L'approvazione della prima eccezione normativa al principio della gratuità del processo del lavoro (seppure solo per il giudizio in Cassazione) non può che essere giudicata inopportuna e finalizzata più che alla necessità di fare cassa (considerate le modeste somme che saranno incamerate dall'erario) a compiere un primo passo verso la totale abrogazione della norma di favore.
Difatti già nel corso del 2008 con il D.L. n°112 del 25.6.2008, fu stabilita l'abrogazione della legge n°319/58, salvo il ripensamento del governo che con il successivo D.L. n° 200 del 22.12.2008 eliminò la norma abrogatrice.
Non può che augurarsi una successiva modifica che elimini nuovamente l'onere di pagamento del contributo unificato in sede di giudizio di cassazione al fine di ristabilire l'intangibilità del principio violato.
Avv. Luca Di Francesco, Retelegale Lecce.
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venerdì 1 gennaio 2010
La Finanziaria 2010 approvata dal Senato il 22.12.09 ha apportato alcune modifiche al testo unico in materia di spese di giustizia già segnalate con il precedente post.
Per quanto riguarda il processo del lavoro è stato introdotto l'obbligo del pagamento del contributo unificato per il ricorso in Cassazione.
Si tratta della prima volta che il principio della gratuità del processo in materia di lavoro viene ad essere, seppure parzialmente (e fortunamentamente in minima parte), intaccato.
Com'é noto il principio della gratuità del processo del lavoro è stato introdotto al fine di garantire l'effettività della tutela giudiziaria del lavoratore che, sia nel rapporto sostanziale che nel rapporto processuale, non si trova (generalmente e salvo eccezioni) in condizioni di parità con il datore di lavoro e che, spesso, non ha i mezzi economici per sostenere le spese di un giudizio (pensiamo per es. ad un licenziamento ad nutum o ad un lavoratore che agisce per ottenere il pagamento delle retribuzioni non corrisposte da mesi).
L'approvazione della prima eccezione normativa al principio della gratuità del processo del lavoro(seppure solo per il giudizio in Cassazione) non può che essere giudicata inopportuna e finalizzata più che alla necessità di fare cassa (considerate le modeste somme che saranno incamerate dall'erario) ad introdurre un primo passo verso la totale abrogazione della norma di favore.
Difatti già nel corso del 2008 con il D.L. n°112 del 25.6.2008, fu stabilita l'abrogazione della legge n°319/58, salvo il ripensamento del governo che con il successivo D.L. n° 200 del 22.12.2008 eliminò la norma abrogatrice.
Non può che augurarsi una successiva modifica che elimini nuovamente l'onere di pagamento del contributo unificato in sede di giudizio di cassazione al fine di ristabilire l'intangibilità del principio violato.
Avv. Luca Di Francesco, Retelegale Lecce.
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degli associati, ogni pubblicazione, scritto ed intervento rappresenta l'opinione ed il pensiero unicamente dell'associato che la pubblica e l'insieme delle
pubblicazioni non costituisce testata giornalistica
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