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venerdì 25 giugno 2010
Con le sentenze in esame la Corte di Cassazione a sezioni unite ribadisce alcuni importanti principi:
1) che il diritto all'indennità di occupazione matura al compimento di ogni singola annualità, per cui il parametro di riferimento, è quello del valore venale attuale del bene, passibile nel tempo di variazioni dipendenti dallo specifico mercato immobiliare di riferimento. "Ne consegue che, se la determinazione monetaria del valore venale de bene abbia subito variazioni apprezzabili nello sviluppo delle occupazione legittima e registrabili alle singole consecutive cadenze annuali, ad ogni scadenza dovrà procedersi al calcolo virtuale della indennità di espropriazione fondata anche sul valore venale del bene, come tale soggetto a variazioni nel tempo. Tuttavia, la diversità tra la data di effettiva valutazione dell'immobile e quella di maturazione del diritto a percepire l'indennizzo per la scadenza dell'annualità di occupazione legittima non rende censurabile la liquidazione di detto indennizzo, ove non si dimostri un apprezzabile divario del valore del bene in tali rispettivi momenti" (Cass., sez. 1^, 27 luglio 2007, n. 16744, m. 600839, Cass., sez. 1^, 16 settembre 2009, n. 19972, m. 610574).
2) che l'edificabilità del fondo deve necessariamente essere commisurata ad indici "medi" di fabbricabilità riferiti (o riferibili) all'intera zona omogenea, al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato, nel senso che, ove non si ritenga di stimare il terreno ricorrendo a criteri comparativi basati sul valore di aree omogenee, l'adozione del metodo analitico - ricostruttivo comporta che l'accertamento dei volumi realizzabili sull'area non possa basarsi sull'indice fondiario di edificabilità (che è riferito alle singole aree specificamente destinate all'edificazione privata) e che, invece, postulando l'esercizio concreto dello ius aedificandi che l'area sia urbanizzata e, che si tenga conto dell'incidenza degli spazi all'uopo riservati ad infrastrutture e servizi a carattere generale, si debba prescindere come dal fatto che l'area sia (eventualmente) destinata ad usi che non comportano specifica realizzazione di opere edilizie (verde pubblico, viabilità, parcheggi) non potendo l'edificabilità essere vanificata dalla utilizzabilità non strettamente residenziale, così dalla maggiore o minore fabbricabilità che il fondo venga a godere o subire per effetto delle disposizioni di piano attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni ovvero servizi ed infrastrutture, di guisa che tutti i terreni espropriati in uno stesso ambito zonale vengano a percepire la stessa indennità, calcolata su una valutazione del fondo da formulare sulla potenzialità edificatoria "media" di tutto il comprensorio, ovvero dietro applicazione di un indice di fabbricabilità (territoriale che sia frutto del rapporto tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato" (Cass., sez. 1^, 29 novembre 2006, n. 25363, m. 593279, Cass., sez. un., 21 marzo 2001, n. 125, m. 544 961, Cass., sez. 1^, 16 maggio 2006, n. 11477, m. 590405, Cass., sez. 1^, 16 giugno 2006, n. 13958, m. 590694).
3) che gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria non essendo sufficiente la sola presentazione dell'istanza relativa. Pertanto non si applica nella liquidazione il criterio del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste, ma si valuta la sola area, si da evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere anche indirettamente ad accrescere il valore del fondo" (Cass., sez. 1^, 14 dicembre 2007, n. 26260, m. 600949). Ne "consegue che, ove si tratti di immobile costruito abusivamente, ed in relazione al quale sia stata successivamente avanzata istanza di condono edilizio, ai fini della determinazione della condizione urbanistica dello stesso, necessaria per stabilirne il reale valore di mercato, e, quindi, determinare la indennità di occupazione legittima, si richiede l'accertamento della circostanza dell'avvenuto rilascio della concessione in sanatoria, non essendo sufficiente la sola considerazione della presentazione della predetta istanza" (Cass., sez., un., 22 luglio 1999, n. 499, m. 528864). In conclusione ai proprietari non compete alcuna indennità, né di espropriazione né di occupazione legittima, per le opere abusivamente realizzate, se all'epoca in cui fu decretata l'espropriazione dei fondi sui quali insistono, non erano state ancora condonate.
Avv. Giuseppe Spanò
Retelegale Parma
1) che il diritto all'indennità di occupazione matura al compimento di ogni singola annualità, per cui il parametro di riferimento, è quello del valore venale attuale del bene, passibile nel tempo di variazioni dipendenti dallo specifico mercato immobiliare di riferimento. "Ne consegue che, se la determinazione monetaria del valore venale de bene abbia subito variazioni apprezzabili nello sviluppo delle occupazione legittima e registrabili alle singole consecutive cadenze annuali, ad ogni scadenza dovrà procedersi al calcolo virtuale della indennità di espropriazione fondata anche sul valore venale del bene, come tale soggetto a variazioni nel tempo. Tuttavia, la diversità tra la data di effettiva valutazione dell'immobile e quella di maturazione del diritto a percepire l'indennizzo per la scadenza dell'annualità di occupazione legittima non rende censurabile la liquidazione di detto indennizzo, ove non si dimostri un apprezzabile divario del valore del bene in tali rispettivi momenti" (Cass., sez. 1^, 27 luglio 2007, n. 16744, m. 600839, Cass., sez. 1^, 16 settembre 2009, n. 19972, m. 610574).
2) che l'edificabilità del fondo deve necessariamente essere commisurata ad indici "medi" di fabbricabilità riferiti (o riferibili) all'intera zona omogenea, al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato, nel senso che, ove non si ritenga di stimare il terreno ricorrendo a criteri comparativi basati sul valore di aree omogenee, l'adozione del metodo analitico - ricostruttivo comporta che l'accertamento dei volumi realizzabili sull'area non possa basarsi sull'indice fondiario di edificabilità (che è riferito alle singole aree specificamente destinate all'edificazione privata) e che, invece, postulando l'esercizio concreto dello ius aedificandi che l'area sia urbanizzata e, che si tenga conto dell'incidenza degli spazi all'uopo riservati ad infrastrutture e servizi a carattere generale, si debba prescindere come dal fatto che l'area sia (eventualmente) destinata ad usi che non comportano specifica realizzazione di opere edilizie (verde pubblico, viabilità, parcheggi) non potendo l'edificabilità essere vanificata dalla utilizzabilità non strettamente residenziale, così dalla maggiore o minore fabbricabilità che il fondo venga a godere o subire per effetto delle disposizioni di piano attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni ovvero servizi ed infrastrutture, di guisa che tutti i terreni espropriati in uno stesso ambito zonale vengano a percepire la stessa indennità, calcolata su una valutazione del fondo da formulare sulla potenzialità edificatoria "media" di tutto il comprensorio, ovvero dietro applicazione di un indice di fabbricabilità (territoriale che sia frutto del rapporto tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato" (Cass., sez. 1^, 29 novembre 2006, n. 25363, m. 593279, Cass., sez. un., 21 marzo 2001, n. 125, m. 544 961, Cass., sez. 1^, 16 maggio 2006, n. 11477, m. 590405, Cass., sez. 1^, 16 giugno 2006, n. 13958, m. 590694).
3) che gli immobili costruiti abusivamente non sono suscettibili di indennizzo, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria non essendo sufficiente la sola presentazione dell'istanza relativa. Pertanto non si applica nella liquidazione il criterio del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste, ma si valuta la sola area, si da evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere anche indirettamente ad accrescere il valore del fondo" (Cass., sez. 1^, 14 dicembre 2007, n. 26260, m. 600949). Ne "consegue che, ove si tratti di immobile costruito abusivamente, ed in relazione al quale sia stata successivamente avanzata istanza di condono edilizio, ai fini della determinazione della condizione urbanistica dello stesso, necessaria per stabilirne il reale valore di mercato, e, quindi, determinare la indennità di occupazione legittima, si richiede l'accertamento della circostanza dell'avvenuto rilascio della concessione in sanatoria, non essendo sufficiente la sola considerazione della presentazione della predetta istanza" (Cass., sez., un., 22 luglio 1999, n. 499, m. 528864). In conclusione ai proprietari non compete alcuna indennità, né di espropriazione né di occupazione legittima, per le opere abusivamente realizzate, se all'epoca in cui fu decretata l'espropriazione dei fondi sui quali insistono, non erano state ancora condonate.
Avv. Giuseppe Spanò
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lunedì 21 giugno 2010
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 04 marzo 2010 n. 5209 (in Guida al Lavoro n. 18-2010), ha affermato che: “In tema di rappresentatività sindacale il criterio legale dell’effettività dell’azione sindacale equivale al riconoscimento della capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale nella regolamentazione dei rapporti lavorativi. Ne consegue che al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale –richiesto per legittimare l’azione di repressione antisindacale ex art. 28 Stat. Lav.- assume rilievo, più che la diffusione delle articolazioni territoriali, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi, anche gestionali, che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e attestano un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio economico dell’intero paese …”.
Il principio elaborato dalla Corte di Legittimità, nella predetta pronuncia, non appare ad opinione di chi scrive convincente.
Alla luce di tale mancata adesione, si rende, allora, opportuno chiarire le ragioni di critica.
* ° *
Il Giudice delle Leggi [1], in anni lontani, ebbe modo di precisare che “la garanzia del libero sviluppo di una normale dialettica sindacale è assicurata dallo Statuto, non solo attraverso il divieto dei sindacati di comodo (art. 17), ma anche e soprattutto attraverso il fondamentale strumento di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro previsto dall’articolo 28, il cui impiego presuppone una dimensione organizzativa –quella nazionale- che, per non essere legata …. alla stipulazione di contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche alle organizzazioni che dissentono dalle politiche sindacali maggioritarie perseguite a quel livello. …”.
La Corte Costituzionale, dunque, con la anzidetta pronuncia, ha avuto modo di chiarire che il filtro selettivo richiesto, ai fini dell’azionabilità della procedura di repressione, è ben meno gravoso di quello richiesto (ex art. 19 Stat. Lav.) per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali e indi per l’accesso alla legislazione di sostegno.
Appare, allora, evidente che svincolare il requisito della nazionalità, richiesto dall’articolo 28 S.L., dalla stipulazione di contratti collettivi, non può che equivalere al riconoscimento che gli articoli 19 e 28 Stat. Lav. hanno distinti ambiti di operatività e che, indi, l’accesso alla speciale tutela, per la repressione della condotta antisindacale, è basato su un filtro selettivo diverso da quello richiesto dall’articolo 19 S.L..
L’anzidetto principio, oltre ad essere stato reiteratamente affermato in una alluvionale produzione giurisprudenziale, è stato recentemente ribadito anche dalla Corte di nomofilachia[2], la quale, sul punto, ha affermato che:
“su tale questione gli orientamenti espressi sono stati univoci nel senso di ritenere sussistente la legittimazione attiva di sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, … essendo determinante il requisito della diffusione del sindacato (anche monocategoriale) sul territorio nazionale, dovendosi però intendere tale diffusione nel senso che basta lo svolgimento di effettiva azione sindacale (non su tutto ma) su gran parte del territorio nazionale (Cass. 17 ottobre 1990 n. 10114; 20 aprile 2002 n. 5765; 07 agosto 2002 n. 11833; 26 febbraio 2004 n. 3917; 03 giugno 2004 n. 10616; 10 gennaio 2005 n. 269). … Sulla specifica questione della legittimazione delle organizzazioni che non abbiano limitato ad una sola predeterminata categoria professionale il fine della loro attività, e, quindi, mirino ad associare e tutelare i lavoratori in genere, la soluzione, in linea di principio, deve essere positiva. In tal senso depongono la mancanza di elementi normativi testuali di segno contrario, la libertà delle associazioni sindacali di scegliere le modalità organizzative secondo cui operare, e, infine, la circostanza che la mancanza di un’unica categoria di riferimento non esclude che, in via presuntiva e tendenziale, la dimensione nazionale assicuri l’operare di scelte, nell’azione sindacale, maggiormente consapevoli e razionali e, quindi, con maggiori probabilità, funzionali alla protezione degli interessi dei lavoratori. … Il carattere intercategoriale dell’associazione sindacale, tuttavia, qualche specifico riflesso può avere in tema di accertamento di adeguata diffusione della medesima sul territorio nazionale. Sulla base del principio, ricavabile dalla stessa giurisprudenza costituzionale sopra citata, secondo cui, ai fini della legittimazione al ricorso ex art. 28 S.L., è necessaria la presenza di un sindacato dotato di un minimo di rappresentatività non limitata ad una dimensione locale, ma diffusa nel territorio nazionale, la dove si rinviene la categoria di riferimento del sindacato stesso, in linea di principio i limiti minimi di presenza sul territorio di un sindacato intercategoriale devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti a un’associazione di categoria. Tuttavia, in sede applicativa, tale affermazione deve essere correlata con il principio secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività. …”
Alla luce del predetto principio, ribadito dalla Corte a Sezioni Unite, sembra che il filtro selettivo richiesto dall’articolo 28 Stat. Lav. risulti essere soddisfatto, lì ove, l’organizzazione sindacale, diffusa sul territorio nazionale, svolga un’attività sindacale estesa su buona parte del territorio nazionale: attività sindacale, che non identificandosi e non potendosi identificare esclusivamente nella stipulazione di un contratto collettivo, ben può, dunque, svilupparsi, per la sua poliedricità, in una molteplicità di forme, tra cui l’indizione di scioperi generali o nazionali di categoria, l’indizione di assemblee, la presentazione di piattaforme rivendicative, l’organizzazioni di convegni, la presentazioni di note ed osservazione alla Commissione di Garanzia ecc.
Principi questi che costituiscono orientamento più che consolidato, tanto e che, recentemente, la Corte di Cassazione[3] ha avuto modo di ribadire che la legittimatio ad agendum compete ad associazioni sindacali diffuse sul territorio e che svolgono attività sindacale, non su tutto ma su buona parte del territorio nazionale, “per la promozione degli interessi dei lavoratori, in favore dei quali si dirige, sul piano locale, l’azione dei singoli organismi territoriali”.
A tali sedimentati principi, a cui si presta integrale adesione, si contrappone un orientamento che ritiene[4] che “espressione nazionale dell’attività sindacale è la stipula di contratti collettivi di quel livello”.
Si tratta di un orientamento che sembra in contrasto con i principi elaborati, dapprima, dalla Corte Costituzionale e, successivamente, ribaditi dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite[5].
Infatti, l’asserire che il requisito della nazionalità si identifica nella stipulazione con un contratto collettivo nazionale equivale a fornire un’interpretazione dei criteri selettivi di cui all’articolo 28 Stat. Lav. ben più rigorosi di quelli attualmente richiesti dall’articolo 19 della 300-1970, essendo sufficiente, ai fini della costituzione della r.s.a., la sottoscrizione di un contratto di secondo livello.
Ciò, evidentemente, costituisce un principio antitetico a quello, consacrato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, “secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività.”
Tanto è che due pronunce della Corte di Cassazione[6], tra cui quella in apertura, pur ponendosi nello stesso solco della anzidetta pronuncia, hanno cercato di correggere il predetto orientamento, includendo nella categoria dei contratti collettivi utili, ai fini della legittimazione, anche quelli gestionali (seppur un diverso orientamento pervenga ad escluderne la natura di fonte collettiva): “al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale assume rilievo, più che la diffusione della articolazione territoriale delle strutture dell’associazione, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale” ovvero “di un contratto collettivo gestionale … in quanto l’imporre, o contribuire con la propria condotta negoziale a rendere applicabile su tutto il territorio del paese, le regole dettate da detto contratto è indice di una incisiva e concreta effettività della sua specifica forza negoziale … E’ stato statuito da questa Corte di Cassazione che le regole contemplate negli accordi gestionali sono volte a delimitare l’ambito del potere del datore di lavoro concorrendo a disciplinare importanti aspetti del rapporto di lavoro … Detti accordi, inoltre … esprimono la capacità negoziale delle organizzazioni sindacali firmatarie, che è il presupposto per il riconoscimento del diritto di queste a costituire r.s.a. (così Cass. 24 settembre 2004 n. 19271) ”.
Pur tuttavia, appare evidente che tale orientamento si presta alle stesse obiezioni del suo precedente, in quanto esso si pone in contrasto con il principio elaborato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, sostanziandosi nel rendere il requisito di accesso alla procedura, ex art. 28 Stat. Lav., ben più gravoso del filtro richiesto dall’articolo 19 Stat. Lav..
In conclusione, riepilogati i diversi orientamenti, si ritiene, per le ragioni esplicitate, che il principio elaborato dalla Corte di Cassazione a sezione unite appaia preferibile essendo ben aderente all’osservazioni avanzate dalla Corte Costituzionale e allo stesso testo normativo.
Retelegale Roma V. Caponera
[1] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334
[2] Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269
[3] C. Cass. 06 giugno 2006 n. 13250; 14 marzo 2006 n. 5506
[4] C. Cass. 23 marzo 2006 n. 6429
[5] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334; Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269
[6] C. Cass. 11 gennaio 2008 n. 520; 09 gennaio 2008 n. 212. Entrambe redatte dal medesimo estensore.
Il principio elaborato dalla Corte di Legittimità, nella predetta pronuncia, non appare ad opinione di chi scrive convincente.
Alla luce di tale mancata adesione, si rende, allora, opportuno chiarire le ragioni di critica.
* ° *
Il Giudice delle Leggi [1], in anni lontani, ebbe modo di precisare che “la garanzia del libero sviluppo di una normale dialettica sindacale è assicurata dallo Statuto, non solo attraverso il divieto dei sindacati di comodo (art. 17), ma anche e soprattutto attraverso il fondamentale strumento di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro previsto dall’articolo 28, il cui impiego presuppone una dimensione organizzativa –quella nazionale- che, per non essere legata …. alla stipulazione di contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche alle organizzazioni che dissentono dalle politiche sindacali maggioritarie perseguite a quel livello. …”.
La Corte Costituzionale, dunque, con la anzidetta pronuncia, ha avuto modo di chiarire che il filtro selettivo richiesto, ai fini dell’azionabilità della procedura di repressione, è ben meno gravoso di quello richiesto (ex art. 19 Stat. Lav.) per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali e indi per l’accesso alla legislazione di sostegno.
Appare, allora, evidente che svincolare il requisito della nazionalità, richiesto dall’articolo 28 S.L., dalla stipulazione di contratti collettivi, non può che equivalere al riconoscimento che gli articoli 19 e 28 Stat. Lav. hanno distinti ambiti di operatività e che, indi, l’accesso alla speciale tutela, per la repressione della condotta antisindacale, è basato su un filtro selettivo diverso da quello richiesto dall’articolo 19 S.L..
L’anzidetto principio, oltre ad essere stato reiteratamente affermato in una alluvionale produzione giurisprudenziale, è stato recentemente ribadito anche dalla Corte di nomofilachia[2], la quale, sul punto, ha affermato che:
“su tale questione gli orientamenti espressi sono stati univoci nel senso di ritenere sussistente la legittimazione attiva di sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, … essendo determinante il requisito della diffusione del sindacato (anche monocategoriale) sul territorio nazionale, dovendosi però intendere tale diffusione nel senso che basta lo svolgimento di effettiva azione sindacale (non su tutto ma) su gran parte del territorio nazionale (Cass. 17 ottobre 1990 n. 10114; 20 aprile 2002 n. 5765; 07 agosto 2002 n. 11833; 26 febbraio 2004 n. 3917; 03 giugno 2004 n. 10616; 10 gennaio 2005 n. 269). … Sulla specifica questione della legittimazione delle organizzazioni che non abbiano limitato ad una sola predeterminata categoria professionale il fine della loro attività, e, quindi, mirino ad associare e tutelare i lavoratori in genere, la soluzione, in linea di principio, deve essere positiva. In tal senso depongono la mancanza di elementi normativi testuali di segno contrario, la libertà delle associazioni sindacali di scegliere le modalità organizzative secondo cui operare, e, infine, la circostanza che la mancanza di un’unica categoria di riferimento non esclude che, in via presuntiva e tendenziale, la dimensione nazionale assicuri l’operare di scelte, nell’azione sindacale, maggiormente consapevoli e razionali e, quindi, con maggiori probabilità, funzionali alla protezione degli interessi dei lavoratori. … Il carattere intercategoriale dell’associazione sindacale, tuttavia, qualche specifico riflesso può avere in tema di accertamento di adeguata diffusione della medesima sul territorio nazionale. Sulla base del principio, ricavabile dalla stessa giurisprudenza costituzionale sopra citata, secondo cui, ai fini della legittimazione al ricorso ex art. 28 S.L., è necessaria la presenza di un sindacato dotato di un minimo di rappresentatività non limitata ad una dimensione locale, ma diffusa nel territorio nazionale, la dove si rinviene la categoria di riferimento del sindacato stesso, in linea di principio i limiti minimi di presenza sul territorio di un sindacato intercategoriale devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti a un’associazione di categoria. Tuttavia, in sede applicativa, tale affermazione deve essere correlata con il principio secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività. …”
Alla luce del predetto principio, ribadito dalla Corte a Sezioni Unite, sembra che il filtro selettivo richiesto dall’articolo 28 Stat. Lav. risulti essere soddisfatto, lì ove, l’organizzazione sindacale, diffusa sul territorio nazionale, svolga un’attività sindacale estesa su buona parte del territorio nazionale: attività sindacale, che non identificandosi e non potendosi identificare esclusivamente nella stipulazione di un contratto collettivo, ben può, dunque, svilupparsi, per la sua poliedricità, in una molteplicità di forme, tra cui l’indizione di scioperi generali o nazionali di categoria, l’indizione di assemblee, la presentazione di piattaforme rivendicative, l’organizzazioni di convegni, la presentazioni di note ed osservazione alla Commissione di Garanzia ecc.
Principi questi che costituiscono orientamento più che consolidato, tanto e che, recentemente, la Corte di Cassazione[3] ha avuto modo di ribadire che la legittimatio ad agendum compete ad associazioni sindacali diffuse sul territorio e che svolgono attività sindacale, non su tutto ma su buona parte del territorio nazionale, “per la promozione degli interessi dei lavoratori, in favore dei quali si dirige, sul piano locale, l’azione dei singoli organismi territoriali”.
A tali sedimentati principi, a cui si presta integrale adesione, si contrappone un orientamento che ritiene[4] che “espressione nazionale dell’attività sindacale è la stipula di contratti collettivi di quel livello”.
Si tratta di un orientamento che sembra in contrasto con i principi elaborati, dapprima, dalla Corte Costituzionale e, successivamente, ribaditi dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite[5].
Infatti, l’asserire che il requisito della nazionalità si identifica nella stipulazione con un contratto collettivo nazionale equivale a fornire un’interpretazione dei criteri selettivi di cui all’articolo 28 Stat. Lav. ben più rigorosi di quelli attualmente richiesti dall’articolo 19 della 300-1970, essendo sufficiente, ai fini della costituzione della r.s.a., la sottoscrizione di un contratto di secondo livello.
Ciò, evidentemente, costituisce un principio antitetico a quello, consacrato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, “secondo cui la rappresentatività richiesta dall’art. 28 Stat. Lav. costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività.”
Tanto è che due pronunce della Corte di Cassazione[6], tra cui quella in apertura, pur ponendosi nello stesso solco della anzidetta pronuncia, hanno cercato di correggere il predetto orientamento, includendo nella categoria dei contratti collettivi utili, ai fini della legittimazione, anche quelli gestionali (seppur un diverso orientamento pervenga ad escluderne la natura di fonte collettiva): “al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale assume rilievo, più che la diffusione della articolazione territoriale delle strutture dell’associazione, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale” ovvero “di un contratto collettivo gestionale … in quanto l’imporre, o contribuire con la propria condotta negoziale a rendere applicabile su tutto il territorio del paese, le regole dettate da detto contratto è indice di una incisiva e concreta effettività della sua specifica forza negoziale … E’ stato statuito da questa Corte di Cassazione che le regole contemplate negli accordi gestionali sono volte a delimitare l’ambito del potere del datore di lavoro concorrendo a disciplinare importanti aspetti del rapporto di lavoro … Detti accordi, inoltre … esprimono la capacità negoziale delle organizzazioni sindacali firmatarie, che è il presupposto per il riconoscimento del diritto di queste a costituire r.s.a. (così Cass. 24 settembre 2004 n. 19271) ”.
Pur tuttavia, appare evidente che tale orientamento si presta alle stesse obiezioni del suo precedente, in quanto esso si pone in contrasto con il principio elaborato dal Giudice delle Leggi e dalla Corte di nomofilachia, sostanziandosi nel rendere il requisito di accesso alla procedura, ex art. 28 Stat. Lav., ben più gravoso del filtro richiesto dall’articolo 19 Stat. Lav..
In conclusione, riepilogati i diversi orientamenti, si ritiene, per le ragioni esplicitate, che il principio elaborato dalla Corte di Cassazione a sezione unite appaia preferibile essendo ben aderente all’osservazioni avanzate dalla Corte Costituzionale e allo stesso testo normativo.
Retelegale Roma V. Caponera
[1] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334
[2] Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269
[3] C. Cass. 06 giugno 2006 n. 13250; 14 marzo 2006 n. 5506
[4] C. Cass. 23 marzo 2006 n. 6429
[5] Corte Costituzionale 24 marzo 1988 n. 334; Corte di Cassazione a sezione unite 21 dicembre 2005 n. 28269
[6] C. Cass. 11 gennaio 2008 n. 520; 09 gennaio 2008 n. 212. Entrambe redatte dal medesimo estensore.
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sabato 19 giugno 2010
Il processo del lavoro è lungo ed estenuante. Le lungaggini processuali minano l'esistenza stessa dei diritti. Normalmente dal deposito della domanda in Tribunale e la prima udienza passano circa 3 o 4 mesi. In alcuni casi i mesi diventano 5 o 6.
Il nostro ordinamento ha inventato un istituto, quello del Tentativo obbligatorio di conciliazione, che aumento ancora di più i tempi processuali. Dalla data di inoltro della domanda alla DPL e quella di convocazione delle parti per l relativo espletamento del tentativo di conciliazione non devono trascorrere più di 60 giorni nel settore privato e 90 in quello pubblico. La domanda che ci poniamo è: è possibile contemporaneamente depositare il ricorso in tribunale ed inviare la richiesta di tentativo di conciliazione alla Direzione provinciale del Lavoro? Che cosa succede in questo caso?
Poiché altri più autorevoli del sottoscritto avvocato si sono espressi, è bene invocare qui il loro contributo.
“In materia di processo del lavoro, il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, previsto dall'art. 412 bis c.p.c. quale condizione di procedibilità della domanda, deve essere eccepito dal convenuto nella memoria difensiva di cui all'art. 416 c.p.c. e può essere rilevato d'ufficio dal giudice, purché non oltre l'udienza di cui all'art. 420 c.p.c., con la conseguenza che ove l'improcedibilità dell'azione, anche se segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine, la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di giudizio.” Cassazione civile sez. lav. 14 ottobre 2009 n. 21797 Inpdap C. D'Amato e altro in Guida al diritto 2010, 1, 51 (s.m.).
“Premesso che le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all'esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall'art. 24 cost., non possono essere interpretate in senso estensivo, deve ritenersi che, ai fini dell'espletamento del tentativo di conciliazione , il quale ai sensi dell'art. 412 c.p.c. costituisce condizione di procedibilità della domanda, sia sufficiente, in base a quanto disposto dall'art. 410 bis c.p.c., la presentazione della richiesta all'organo istituito presso le Direzioni provinciali del lavoro , considerandosi comunque espletato il tentativo di conciliazione decorsi sessanta giorni dalla presentazione, a prescindere dall'avvenuta comunicazione della richiesta stessa alla controparte. Tale comunicazione è invece necessaria, ai sensi dell'art. 410, comma 2, c.p.c., perché si verifichi la interruzione della prescrizione e la sospensione, per il periodo ivi indicato, di ogni termine di decadenza.” Cassazione civile sez. lav. 21 gennaio 2004 n. 967 Bizzanelli C. Garlisi in Giust. civ. Mass.2004, 1, Notiziario giur. Lav. 2004, 370.
Ergo, non vi possono essere dubbi circa la natura del tentativo di conciliazione che NON E' condizione di ammissibilità e NON E' condizione di proponibilità della domanda ma E' condizione di procedibilità.
La sua funzione è, come è noto, quella di ridurre il contenzioso in materia di lavoro.
Il contenzioso in materia di lavoro, come è abbastanza agevole intuire, diminuisce se le parti rispondono alla convocazione della direzione provinciale del lavoro, si rendono disponibili ad una soluzione bonaria, trovano l'accordo e lo sottoscrivono. Esserci fisicamente, dunque, presenziare a quell'incontro, pare essere condizione indefettibile perché questo strumento possa funzionare. Mettiamo il caso frequente della parte datoriale che non si presenta al Tentativo di conciliazione promosso dal lavoratore che contemporaneamente ha depositato il ricorso in tribunale e poi chieda l'improcedibilità dell'azione a causa del mancato rispetto dei termini di cui al terzo comma dell'art. 412 bis c.p.c. Ciò, come è noto, avrebbe come conseguenza quella di sospendere il giudizio per concedere alle parti un termine per l'espletamento del tentativo stesso. Il fatto è, tuttavia, che quella convocazione c'è già stata e quella commissione si è già riunita ed ha redatto un verbale nel quale si dava atto della presenza del lavoratore, del suo difensore e dell'ASSENZA del datore di lavoro. Da questo comportamento concludente si deve obbligatoriamente dedurre che il datore di lavoro non ha alcuna intenzione di conciliare la causa.
Quindi anche i muri, per dirlo con una espressione idiomatica, sono consapevoli del fatto che datore di lavoro e lavoratore non intendono o non sono in grado o non possono conciliare questa controversia.
Quindi, ci si chiede: di che cosa stiamo parlando? Della necessità di sospendere un procedimento per adire di nuovo la Direzione provinciale del lavoro affinché convochi la commissione e le parti per assistere ancora una volta all'assenza della datrice di lavoro?
Tentiamo di interpretare nel suo complesso l'art. 412 bis c.p.c. che recita “L'espletamento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda.”. Questo è il primo comma che non risulta interpretabile e descrive sin da subito una traiettoria ermeneutica chiara non distinguendo (volutamente) tra promozione ed espletamento ma, al contrario, riferendosi unicamente all'espletamento del tentativo di conciliazione. Il secondo comma si riferisce alle decadenze processuali e non ci interessa nel caso di specie. Vediamo il terzo comma.
“Il giudice, ove rilevi che non è stato promosso il tentativo di conciliazione ovvero che la domanda giudiziale è stata presentata prima dei sessanta giorni dalla promozione del tentativo stesso, sospende il giudizio e fissa alle parti il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazione”
A chi scrive pare assolutamente incontrovertibile che questo comma, che arriva dopo che è stato espresso un principio in maniera lapidaria al comma principale ed iniziale, si riferisce comunque al caso in cui il tentativo di conciliazione non sia stato espletato per la mancata convocazione della parti dinanzi alla Direzione provinciale del Lavoro. Questo, purtroppo, è un caso molto frequente che in questa norma trova una sua completa disciplina. Le Direzioni Provinciali del Lavoro spesso sono oberate e congestionate al punto da non poter rispettare i termini previsti dalla legge per la convocazione della parti al fine di espletare il tentativo di conciliazione. La legge, quindi ha previsto che la condizione di procedibilità si realizzi comunque decorsi 60 giorni dalla promozione del tentativo stesso. Quindi, ricapitolando, questa norma dice che, tenuto fermo il principio secondo il quale l'espletamento del tentativo di conciliazione è condizione di procedibilità dell'azione (comma 1), se la parte agisce in giudizio prima che siano decorsi 60 giorni SENZA che il tentativo di conciliazione sia stato espletato o, addirittura, senza averlo mai promosso, la relativa domanda debba essere dichiarata improcedibile con concessione dei termini di cui al medesimo comma. Questa è l'unica interpretazione sistematica possibile.
L'interpretazione opposta conduce a delle aberrazioni sistemiche al limite del ridicolo che, oltretutto, non solo non consentirebbero all'istituto in esame di ridurre il contenzioso in materia di diritto del lavoro ma addirittura determinerebbero un appesantimento dell'intero meccanismo.
Se utilizziamo ogni comma senza ricordarci che quel comma vive dentro un articolo e che quell'articolo vive dentro un codice, andando incontro ad errori di interpretazione sostenendo tesi possibili ma sbagliate intente a seguire una “logica” capziosa, strumentale e inutilmente formalista. Perché c'è sempre quel primo comma che toglie ogni dubbio circa la reale natura dell'istituto in parola.
Per cui è interessante capire, e qui il difensore può e deve utilizzare la sua esperienza, tenendo conto dei tempi di convocazione della locale DPL e dei tempi di fissazione dell'udienza da parte del Tribunale, qual'è il caso in cui è possibile promuovere la causa e il tentativo di conciliazione contemporaneamente. Le conseguenze sono molto importanti. Se la DPL mi fissa il Tentativo di Conciliazione, ad esempio, il 20 di settembre ed il giudice nel frattempo ha fissato l'udienza per il 10 di ottobre, il datore di lavoro avrà ancor di più interesse a definire la vicenda dovendosi confrontare con una scadenza ravvicinata che determina costi e rischi elevati.
E' evidente che quella che propongo è una linea difensiva che deve trovare il consenso del giudice ma sono sicuro che spingendo su questo punto con le argomentazioni sopra prospettate, troveremo il placet della giurisprudenza in poco tempo e avremmo contribuito alla riduzione dei tempi processuali senza intervenire sul dato normativo.
Marco Guercio
Avvocato
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lunedì 14 giugno 2010
Alcuni compagni di Terni segnalano l'iniziativa della locale Questura (ma a quanto consta non è la sola, è accaduto anche a Brescia) di pervenire prossimamente alla comunicazione di “avvisi orali” nei confronti di alcuni di loro.
L'istituto viene giustamente tacciato di “fascismo” per la sua innegabile valenza intimidatoria. L'avviso orale ex art. 3, L. n. 1423/ 54 novellato è infatti nulla più che una minaccia ai sensi dell'art. 612 c.p. (“chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito...”) scriminata da una norma di legge che invece la consente.
In concreto si tratta di una comunicazione, sovente scritta (!), con la quale il questore invita (suggerisce, consiglia, cerca di indurre) qualcuno a cambiare condotta, sulla base di una valutazione discrezionale dell'ufficio, sempre però basata su “elementi di fatto”, concetto giuridico estremamente scivoloso (diciamo pure viscido) che può configurarsi anche semplicemente in una ordinaria informativa Digos.
Il TAR Trento (sentenza n° 316/ 04) ha chiarito che l'avviso orale deve essere sempre eseguito oralmente e personalmente da parte del Questore. L'atto non può quindi essere delegato, come spesso succede.
L'avviso orale – che ha sostituito la precedente diffida ( a sua volta introdotta dopo la declaratoria di incostituzionalità dei “tre porcellini” ammonizione, foglio di via e confino) mantenendone però tutte le caratteristiche fattuali onde consentirne da parte del Questore il medesimo utilizzo a scopo preventivo/repressivo – costituisce presupposto necessario per la successiva emanazione di misure di prevenzione (altro bell'istituto di democrazia diretta). Questo simpatico marchingegno giuridico (avviso orale+ misura di sicurezza+ reato per la sua eventuale violazione) ha ben poco da spartire con le garanzie costituzionali in tema di responsabilità penale, certezza della pena e diritto di difesa ma è del tutto coerente ad un ordinamento giuridico che riesce a salvare dall'eccezione di costituzionalità i Centri d'Internamento Temporaneo (salvo poi scandalizzarsi per le leggi ad personam...). Si tratta di un tipico istituto giuridico da Stato di Polizia.
Una recente sentenza del Tar Campania (Sez. V, 11 ottobre 2007 / 17 ottobre 2007, n. 9587 (Pres. est. Onorato) consente di esaminare l'istituto un po' più da vicino e nella sua pratica attuazione.
Afferma il Tribunale che “l' avviso orale a tenere una condotta conforme alla legge - che rappresenta, invero, la misura più tenue tra quelle previste dalla legge n. 1423/1956 e costituisce la condicio sine qua non per l'eventuale applicazione delle misure di cui alla stessa legge - ben può essere motivato con riferimento anche a semplici sospetti a carico del destinatario, purché basati su elementi di fatto che ne facciano ragionevolmente ritenere l'appartenenza ad una delle menzionate categorie ex art. 1 L. 1423/1956.
Infatti, presupposto per l'emanazione dell'avviso in questione non è l'esistenza, secondo quanto sopra precisato, di "specifiche prove" sulla commissione di reati, essendo sufficienti, appunto, anche meri sospetti sugli elementi di fatto che, secondo la regola della logica e della ragionevolezza, inducano la competente Amministrazione a ritenere la sussistenza di quelle condizioni di pericolosità sociale che possano dar luogo all'applicazione di misure di prevenzione.
In altri termini, circa l'applicabilità da parte del Questore dell'avviso orale previsto dall'art. 4 L. 1423/1956, il giudizio sulla pericolosità sociale del soggetto avvisato non richiede la commissione di specifici reati, essendo sufficiente che l'Autorità di polizia sospetti semplicemente della presenza di elementi tali da ritenere la configurabilità, nel soggetto destinatario dell'avviso, di una personalità propensa a seguire particolari comportamenti antigiuridici”.
Le categorie di soggetti nei confronti dei quali la legge consente l'avviso orale sono le seguenti:
- coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi;
- coloro, che per la condotta ed il tenore di vita, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;
- coloro che, per il loro comportamento, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
A tali requisiti legali, ritenuti di per sé indice di pericolosità sociale meritevole di interesse preventivo da parte dei soggetti preposti alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, la giurisprudenza ha poi aggiunto quello della attualità delle condotte (da ultimo vedasi Trib. Monza – sez. misure di prevenzione - 12.3.10, in www.camerapenalemonza.it).
L'uso dell'avviso orale nei confronti di militanti antagonisti (variamente inteso il concetto e comprensivo quindi di tutti coloro che manifestano contro il sistema economico/ sociale capitalista/neoliberista) risulta francamente abnorme (la pericolosità sociale è concetto strettamente correlato all'attività criminosa in senso stretto) e quindi tale da potersi considerare un abuso. L'abuso del questore, che è pubblico ufficiale, non è atto indifferente, bensì produttivo di responsabilità penale ai sensi dell'art. 323c.p. configurando il reato di abuso d'ufficio.
Se infatti l'avviso orale viene pronunciato nei confronti di qualcuno che: a) prima ipotesi: non possa ritenersi abitualmente dedito a traffici illeciti; b) seconda ipotesi: non risulti avere una condotta o un tenore di vita basato su proventi di attività delittuose; c) terza ipotesi: non tenga un comportamento che faccia ritenere esser dedito alla commissione di reati verso minorenni, sanità, sicurezza e tranquillità sociale, si è di fronte ad un uso distorto e strumentale dell'istituto.
E' infatti evidente come il legislatore abbia inteso tenere sotto controllo quegli ambiti in cui il delitto, inteso come condotta antisociale per eccellenza, si sostanzia in una serie di comportamenti esteriori (appunto condotte, comportamenti, tenore di vita) tali da mettere l'autorità di p.s. sull'avviso. Ma la militanza politico/ sindacale, quand'anche condotta con metodi energici, non potrà mai costituire ragione sufficiente a giustificare l'avviso orale in assenza di altri elementi di fatto attuali riconducibili alle ipotesi previste dalla norma. Pare francamente improbabile (e certamente deprecabile dovesse capitare) che la militanza antagonista sfoci o possa sfociare in traffici illeciti o consentire un tenore di vita in qualche modo basato su proventi da delitto. Più delicata invece la valutazione con riferimento alla terza ipotesi, volutamente più generica e fumosa. Potrebbe infatti comprendere qualunque tipo di reato in quanto la delimitazione normativa che fa riferimento al soggetto o al bene giuridico offeso (minori, sanità, sicurezza e tranquillità sociale) è molto ampia. In particolare, potendosi escludere i reati nei confronti dei minori e della sanità, sono i concetti di sicurezza e soprattutto di tranquillità pubblica a costituire indubbi rischi e possibili strade per abusi dell'avviso orale. E' infatti ovvio che l'attività politico/ sindacale certamente turbi la tranquillità sociale (anzi, ha proprio quello scopo sovente), si pensi allo sciopero ma anche alle altre forme di conflitto lecito (manifestazione, presidio, volantinaggio) ma anche illecito (affissioni abusive, sit in, blocchi stradali, scontri con le forze dell'ordine). Ma è altrettanto vero che tale turbamento, essendo connaturato all'attività stessa che è non solo ammessa ma tutelata e favorita dall'ordinamento e dalla Costituzione, non può certo essere considerata alla stregua di un qualunque delitto comune e comunque certamente non in uno stato che si reputa democratico. Rientra infatti (o dovrebbe rientrare) nella normalità di una democrazia partecipativa in cui le tensioni e le lotte sociali possono anche sfociare in episodi di forte tensione e scontro ma che non possono per ciò solo essere impediti con la repressione, tanto meno preventiva, dovendosi invece accettare anche i rischi della dialettica democratica comunque sempre preferibili ad ogni forma di Stato di Polizia.
Quanto alla sicurezza è invece indubbio che si tratti di un parametro di riferimento delle condotte dei cittadini che l'ordinamento ha il dovere di considerare, ma anche in questo caso l'eventuale pericolosità sociale per la sicurezza non potrà ricavarsi solo ed esclusivamente dalle condotte di militanza politico/ sindacale siano esse lecite ma anche illecite (chiaramente i comportamenti illeciti saranno perseguiti in quanto tali). La motivazione politico/ sindacale, purchè genuina e non strumentale alla commissione di altri delitti, nel nostro ordinamento costituzionale, è di per sé incompatibile con qualunque avviso dell'autorità di p.s. E' incompatibile essendo un diritto di libertà fondamentale. E' corretto quindi affermare che il questore non si può permettere (non ne ha l'autorità) di procedere ad avviso orale nei confronti di chi svolge attività politico/ sindacale in quanto l'ordinamento deve sempre far prevalere la tutela dei diritti, che sono individuali e collettivi, alla libertà e attività sindacale, alla parola e all'opinione, a manifestare e a criticare le istituzioni e le loro scelte. Qualunque avviso orale rivolto a soggetti che esercitano questi diritti è un abuso e come tale deve essere sempre denunciato e perseguito.
Altra cosa sono i singoli reati commessi nello svolgimento delle attività di militanza politico/ sindacale, che l'ordinamento persegue in quanto tali. Com'è noto esistono anche specifiche fattispecie associative fatte apposta per reprimere proprio l'attività politico/ sindacale svolta al di fuori dei limiti posti dalla legge penale che ricomprendono persino condotte singolarmente e normalmente lecite. Si tratta di delitti introdotti nel periodo fascista e sinora sempre salvati, con alcune inevitabili precisazioni per renderli meno indigesti, dalla Corte Costituzionale ma il cui utilizzo da parte delle procure è stato sinora abbastanza maldestro; ciò purtroppo non esclude che la loro esistenza costituisca un serio pericolo sociale (questo sì) per la libertà di svolgimento dell'attività politico/ sindacale e tanto più per il dissenso antagonista.
Alessio Ariotto, Retelegale Torino
L'istituto viene giustamente tacciato di “fascismo” per la sua innegabile valenza intimidatoria. L'avviso orale ex art. 3, L. n. 1423/ 54 novellato è infatti nulla più che una minaccia ai sensi dell'art. 612 c.p. (“chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito...”) scriminata da una norma di legge che invece la consente.
In concreto si tratta di una comunicazione, sovente scritta (!), con la quale il questore invita (suggerisce, consiglia, cerca di indurre) qualcuno a cambiare condotta, sulla base di una valutazione discrezionale dell'ufficio, sempre però basata su “elementi di fatto”, concetto giuridico estremamente scivoloso (diciamo pure viscido) che può configurarsi anche semplicemente in una ordinaria informativa Digos.
Il TAR Trento (sentenza n° 316/ 04) ha chiarito che l'avviso orale deve essere sempre eseguito oralmente e personalmente da parte del Questore. L'atto non può quindi essere delegato, come spesso succede.
L'avviso orale – che ha sostituito la precedente diffida ( a sua volta introdotta dopo la declaratoria di incostituzionalità dei “tre porcellini” ammonizione, foglio di via e confino) mantenendone però tutte le caratteristiche fattuali onde consentirne da parte del Questore il medesimo utilizzo a scopo preventivo/repressivo – costituisce presupposto necessario per la successiva emanazione di misure di prevenzione (altro bell'istituto di democrazia diretta). Questo simpatico marchingegno giuridico (avviso orale+ misura di sicurezza+ reato per la sua eventuale violazione) ha ben poco da spartire con le garanzie costituzionali in tema di responsabilità penale, certezza della pena e diritto di difesa ma è del tutto coerente ad un ordinamento giuridico che riesce a salvare dall'eccezione di costituzionalità i Centri d'Internamento Temporaneo (salvo poi scandalizzarsi per le leggi ad personam...). Si tratta di un tipico istituto giuridico da Stato di Polizia.
Una recente sentenza del Tar Campania (Sez. V, 11 ottobre 2007 / 17 ottobre 2007, n. 9587 (Pres. est. Onorato) consente di esaminare l'istituto un po' più da vicino e nella sua pratica attuazione.
Afferma il Tribunale che “l' avviso orale a tenere una condotta conforme alla legge - che rappresenta, invero, la misura più tenue tra quelle previste dalla legge n. 1423/1956 e costituisce la condicio sine qua non per l'eventuale applicazione delle misure di cui alla stessa legge - ben può essere motivato con riferimento anche a semplici sospetti a carico del destinatario, purché basati su elementi di fatto che ne facciano ragionevolmente ritenere l'appartenenza ad una delle menzionate categorie ex art. 1 L. 1423/1956.
Infatti, presupposto per l'emanazione dell'avviso in questione non è l'esistenza, secondo quanto sopra precisato, di "specifiche prove" sulla commissione di reati, essendo sufficienti, appunto, anche meri sospetti sugli elementi di fatto che, secondo la regola della logica e della ragionevolezza, inducano la competente Amministrazione a ritenere la sussistenza di quelle condizioni di pericolosità sociale che possano dar luogo all'applicazione di misure di prevenzione.
In altri termini, circa l'applicabilità da parte del Questore dell'avviso orale previsto dall'art. 4 L. 1423/1956, il giudizio sulla pericolosità sociale del soggetto avvisato non richiede la commissione di specifici reati, essendo sufficiente che l'Autorità di polizia sospetti semplicemente della presenza di elementi tali da ritenere la configurabilità, nel soggetto destinatario dell'avviso, di una personalità propensa a seguire particolari comportamenti antigiuridici”.
Le categorie di soggetti nei confronti dei quali la legge consente l'avviso orale sono le seguenti:
- coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi;
- coloro, che per la condotta ed il tenore di vita, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;
- coloro che, per il loro comportamento, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
A tali requisiti legali, ritenuti di per sé indice di pericolosità sociale meritevole di interesse preventivo da parte dei soggetti preposti alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, la giurisprudenza ha poi aggiunto quello della attualità delle condotte (da ultimo vedasi Trib. Monza – sez. misure di prevenzione - 12.3.10, in www.camerapenalemonza.it).
L'uso dell'avviso orale nei confronti di militanti antagonisti (variamente inteso il concetto e comprensivo quindi di tutti coloro che manifestano contro il sistema economico/ sociale capitalista/neoliberista) risulta francamente abnorme (la pericolosità sociale è concetto strettamente correlato all'attività criminosa in senso stretto) e quindi tale da potersi considerare un abuso. L'abuso del questore, che è pubblico ufficiale, non è atto indifferente, bensì produttivo di responsabilità penale ai sensi dell'art. 323c.p. configurando il reato di abuso d'ufficio.
Se infatti l'avviso orale viene pronunciato nei confronti di qualcuno che: a) prima ipotesi: non possa ritenersi abitualmente dedito a traffici illeciti; b) seconda ipotesi: non risulti avere una condotta o un tenore di vita basato su proventi di attività delittuose; c) terza ipotesi: non tenga un comportamento che faccia ritenere esser dedito alla commissione di reati verso minorenni, sanità, sicurezza e tranquillità sociale, si è di fronte ad un uso distorto e strumentale dell'istituto.
E' infatti evidente come il legislatore abbia inteso tenere sotto controllo quegli ambiti in cui il delitto, inteso come condotta antisociale per eccellenza, si sostanzia in una serie di comportamenti esteriori (appunto condotte, comportamenti, tenore di vita) tali da mettere l'autorità di p.s. sull'avviso. Ma la militanza politico/ sindacale, quand'anche condotta con metodi energici, non potrà mai costituire ragione sufficiente a giustificare l'avviso orale in assenza di altri elementi di fatto attuali riconducibili alle ipotesi previste dalla norma. Pare francamente improbabile (e certamente deprecabile dovesse capitare) che la militanza antagonista sfoci o possa sfociare in traffici illeciti o consentire un tenore di vita in qualche modo basato su proventi da delitto. Più delicata invece la valutazione con riferimento alla terza ipotesi, volutamente più generica e fumosa. Potrebbe infatti comprendere qualunque tipo di reato in quanto la delimitazione normativa che fa riferimento al soggetto o al bene giuridico offeso (minori, sanità, sicurezza e tranquillità sociale) è molto ampia. In particolare, potendosi escludere i reati nei confronti dei minori e della sanità, sono i concetti di sicurezza e soprattutto di tranquillità pubblica a costituire indubbi rischi e possibili strade per abusi dell'avviso orale. E' infatti ovvio che l'attività politico/ sindacale certamente turbi la tranquillità sociale (anzi, ha proprio quello scopo sovente), si pensi allo sciopero ma anche alle altre forme di conflitto lecito (manifestazione, presidio, volantinaggio) ma anche illecito (affissioni abusive, sit in, blocchi stradali, scontri con le forze dell'ordine). Ma è altrettanto vero che tale turbamento, essendo connaturato all'attività stessa che è non solo ammessa ma tutelata e favorita dall'ordinamento e dalla Costituzione, non può certo essere considerata alla stregua di un qualunque delitto comune e comunque certamente non in uno stato che si reputa democratico. Rientra infatti (o dovrebbe rientrare) nella normalità di una democrazia partecipativa in cui le tensioni e le lotte sociali possono anche sfociare in episodi di forte tensione e scontro ma che non possono per ciò solo essere impediti con la repressione, tanto meno preventiva, dovendosi invece accettare anche i rischi della dialettica democratica comunque sempre preferibili ad ogni forma di Stato di Polizia.
Quanto alla sicurezza è invece indubbio che si tratti di un parametro di riferimento delle condotte dei cittadini che l'ordinamento ha il dovere di considerare, ma anche in questo caso l'eventuale pericolosità sociale per la sicurezza non potrà ricavarsi solo ed esclusivamente dalle condotte di militanza politico/ sindacale siano esse lecite ma anche illecite (chiaramente i comportamenti illeciti saranno perseguiti in quanto tali). La motivazione politico/ sindacale, purchè genuina e non strumentale alla commissione di altri delitti, nel nostro ordinamento costituzionale, è di per sé incompatibile con qualunque avviso dell'autorità di p.s. E' incompatibile essendo un diritto di libertà fondamentale. E' corretto quindi affermare che il questore non si può permettere (non ne ha l'autorità) di procedere ad avviso orale nei confronti di chi svolge attività politico/ sindacale in quanto l'ordinamento deve sempre far prevalere la tutela dei diritti, che sono individuali e collettivi, alla libertà e attività sindacale, alla parola e all'opinione, a manifestare e a criticare le istituzioni e le loro scelte. Qualunque avviso orale rivolto a soggetti che esercitano questi diritti è un abuso e come tale deve essere sempre denunciato e perseguito.
Altra cosa sono i singoli reati commessi nello svolgimento delle attività di militanza politico/ sindacale, che l'ordinamento persegue in quanto tali. Com'è noto esistono anche specifiche fattispecie associative fatte apposta per reprimere proprio l'attività politico/ sindacale svolta al di fuori dei limiti posti dalla legge penale che ricomprendono persino condotte singolarmente e normalmente lecite. Si tratta di delitti introdotti nel periodo fascista e sinora sempre salvati, con alcune inevitabili precisazioni per renderli meno indigesti, dalla Corte Costituzionale ma il cui utilizzo da parte delle procure è stato sinora abbastanza maldestro; ciò purtroppo non esclude che la loro esistenza costituisca un serio pericolo sociale (questo sì) per la libertà di svolgimento dell'attività politico/ sindacale e tanto più per il dissenso antagonista.
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