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lunedì 21 dicembre 2009
L'art, 28 comma 1 del D.Lgs. n° 81/08 ( Attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) stabilisce che “ La valutazione di cui all'articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonche' nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell'accordo europeo dell'8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonche' quelli connessi alle differenze di genere, all'età, alla provenienza da altri Paesi”.
La norma contiene un richiamo esplicito (in gergo dicesi “rinvio recettizio”) ad una fonte esterna, individuata in un accordo europeo dell'8.10.04, che si occupa di un particolare tipo di rischio lavorativo, definito – ovviamente con terminologia mutuata dalla medicina - “stress lavoro- correlato”.
Questo rinvio introduce quindi nell'ordinamento italiano una fonte – di formazione negoziale in quanto trattasi appunto di accordo “europeo” ossia intervenuto fra soggetti di rilevanza comunitaria, poi vedremo chi e come – con la funzione di specificare un rischio lavorativo ritenuto evidentemente meritevole di particolare attenzione: il legislatore ha infatti collocato i rischi da stress “lavoro- correlato” fra i rischi definiti espressamente “particolari”.
Anche in cosa consista la particolarità del rischio da stress “lavoro- correlato” emergerà da questa breve trattazione.
L'accordo in parola è stato recepito in Italia – secondo quanto stabilito dall'accordo europeo stesso che quindi, usando un famoso brocardo “se la canta e se la suona” - con accordo interconfederale 9.6.08 fra le organizzazioni dei datori di lavoro e i tre sindacati concertativi. In esso è riportata la traduzione autentica e giuridicamente valida dell'accordo europeo.
La sola lettura piana del testo è di per sé fonte di divertimento, se non si trattasse di argomento serissimo. L'art. 1 infatti esordisce affermando che “lo stress lavoro- correlato è stato individuato a livello internazionale, europeo e nazionale come oggetto di preoccupazione sia per i datori di lavoro che per i lavoratori”. E' vero, non è uno scherzo.
Tale “preoccupazione” (e quando a livello europeo sorgono preoccupazioni è lecito preoccuparsi) ha indotto le parti sociali (sempre loro) ad introdurre la questione nel programma di Dialogo Sociale 2003- 2005 (si tenga conto che l'accordo europeo era del 2004, mentre il recepimento in Italia è del 2008, quindi nel frattempo la discussione fra le parti sociali dovrebbe essersi esaurita, ma evidentemente alle nostre parti sociali è sfuggito).
Il Dialogo Sociale, come ormai chi si occupa di lavoro dovrebbe sapere, è l'evoluzione in peggio della concertazione: si discute dei problemi del lavoro e poi si risolvono cercando di far meno danno possibile ai profitti delle imprese.
In questo ambito, come vedremo, i dialoghi sullo stress “lavoro- correlato”, potrebbero riservare interessanti sorprese.
Rimandando l'analisi dettagliata dell'accordo ad altra sede, merita richiamare alcuni passaggi significativi.
All'art.2 (finalità) comma 2, si afferma che obiettivo dell'accordo non è quello di attribuire la responsabilità dello stress all'individuo ma di offrire a datori di lavoro e lavoratori un quadro di riferimento per individuare e prevenire o gestire problemi di stress lavoro- correlato.
Al comma 3, ancora più chiaramente, si dice che “le parti sociali europee, riconoscendo che le molestie e la violenza sul posto di lavoro sono potenziali fattori di stress lavoro- correlato, verificheranno nel programma di lavoro del Dialogo Sociale 2003- 2005, la possibilità di negoziare uno specifico accordo su tali temi. Pertanto il presente accordo non concerne la violenza, le molestie e lo stress post- traumatico”.
La traduzione della norma citata è evidente: ne parleremo ma non risolveremo il problema, ma soprattutto che nessuno si azzardi a coinvolgere la problematica dello stress lavoro- correlato con il dramma delle condizioni di lavoro degradanti, con lo sfruttamento e la demoralizzazione dei lavoratori, con gli abusi e con tutto ciò che è contra legem. L'accordo non ne parla né ne vuole parlare.
Ma allora, di cosa stiamo parlando? L'impressione è che le parti sociali europee (più precisamente CES, ossia i sindacati europei, UNICE, la confindustria, UEAPME, artigiani, e CEEP, partecipate) abbiano steso un cordone sanitario attorno ai luoghi di lavoro in maniera da impedire il proliferare delle vertenze per stress lavorativo e circoscriverle a quei casi – appunto la violenza, le molestie e i traumi – ove vi è una correlazione diretta fra stress ed evento vietato. Prima vittima di questo modo di ragionare è la personalità morale del lavoratore – tutelata dalla Costituzione e dall'art. 2087 c.c. - che è pregiudicata non solo dai casi di violazione di norme penali (come appunto in presenza di violenza, molestia o trauma) ma anche - e forse soprattutto - dal sistema stesso di produzione (prima fordista e ora...post fordista) che aliena l'individuo e lo espone al rischio dello stress e con esso a gravi conseguenze sociali quali le diverse forme di dipendenza (droga, alcool, gioco) spingendolo verso condizioni sempre più border- line fino all'autoannullamento o al suicidio (più raramente alla presa di coscienza e alla reazione, magari militante).
L'art. 3 – che è un condensato di psicologia produttivistica - definisce lo stress lavoro- correlato come l'inadeguatezza di taluni a rispondere alle richieste e alle aspettative riposte in loro. Evidenzia come l'individuo sia in grado di sostenere una esposizione di breve durata alla tensione, ma che non tutti reagiscono alla stessa maniera (Lapalisse, tanto per cambiare). Sottolinea come lo stress generato fuori dall'ambiente di lavoro posso influire sull'efficienza del lavoratore (ma il contrario, ossia che lo stress lavorativo influenzi sicuramente le condizioni di vita fuori dall'ambiente di lavoro nemmeno viene considerato). Infine individua nel contenuto del lavoro, nella sua gestione, nell'ambiente e nella comunicazione possibili fonti di stress.
L'art. 4 segnala alcuni campanelli d'allarme che, lungi dal costituire condizioni patologiche dell'ambiente di lavoro sarebbero invece sintomo di stress...dei lavoratori: assenteismo, notevole rotazione (!), conflitti interpersonali, lamentele. Dunque chi non accetta le condizioni è stressato, chi non si adegua è stressato. Avendo così individuato la fonte occorrerà intervenire per prevenire, eliminare o ridurre il problema. Quindi, via i disturbatori.
In sintesi l'approccio al problema del disagio lavorativo (o più correttamente dell'alienazione) è totalmente produttivistico e psicologico, con una marcata individualizzazione della procedura sia di monitoraggio del problema che di intervento successivo, che si configura come una vera e propria cura nei confronti del lavoratore malato di stress.
In conclusione il datore di lavoro che farà un buon piano anti-stress sarà al riparo da qualunque vertenza, avendo in precedenza detto...che c'era quel rischio e ciò col beneplacito dei sindacati concertativi (e probabilmente sotto l'egida degli Enti Paritetici veri cavalli di troia del neocorporativismo).
Il passo verso la certificazione anticipata della sicurezza del luogo di lavoro è breve!
L'inserimento di quest'accordo europeo – sottoscritto fra organismi privi di qualunque legittimazione democratica quali sono appunto le organizzazioni transnazionali dei lavoratori e dei datori di lavoro – introduce nel nostro ordinamento un ulteriore strumento di sopraffazione della coscienza di classe dei lavoratori, mentre i datori di lavoro la loro coscienza di classe la mantengono ben salda e altrettanto efficacemente portano avanti la lotta di classe.
Con invidiabili risultati anche in tempo di crisi. Almeno in Italia.
Alessio Ariotto, Retelegale Torino
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giovedì 17 dicembre 2009
In forza dell'art.1 del Protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo del 4.11.1950 "Ogni persona fisica o morale ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà salvo che per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.
L'interpretazione, da parte della Corte di Strasburgo, del summenzionato Protocollo, ha attribuito alla disposizione un contenuto ed una portata ritenuti dalla stessa Corte Europea incompatibili con la disciplina italiana dell'indennità di espropriazione. Poiché i criteri di calcolo dell'indennità di espropriazione previsti dalla legge italiana portavano alla corresponsione, in tutti i casi, di una somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale) del bene, la Corte europea aveva dichiarato che l'Italia aveva il dovere di porre fine ad una violazione sistematica e strutturale dell'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, anche allo scopo di evitare ulteriori condanne dello Stato italiano in un numero rilevante di controversie seriali pendenti davanti alla Corte medesima.
In seguito ad una lunga evoluzione giurisprudenziale, la Grande Chambre, con la decisione del 29 marzo 2006 nella causa Scordino contro Italia, aveva fissato alcuni principi generali: a) un atto della autorità pubblica, che incide sul diritto di proprietà, deve realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui; b) nel controllare il rispetto di questo equilibrio, la Corte riconosce allo Stato «un ampio margine di apprezzamento», tanto per scegliere le modalità di attuazione, quanto per giudicare se le loro conseguenze trovano legittimazione, nell'interesse generale, dalla necessità di raggiungere l'obiettivo della legge che sta alla base dell'espropriazione; c) l'indennizzo non è legittimo, se non consiste in una somma che si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene»; se da una parte la mancanza totale di indennizzo è giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall'altra non è sempre garantita dalla CEDU una riparazione integrale; d) in caso di «espropriazione isolata», pur se a fini di pubblica utilità, solo una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene; e) «obiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o di giustizia sociale possono giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato effettivo».
La Corte Costituzionale, con la sentenza 24 ottobre 2007 n. 348, preso atto dell'orientamento della Corte di Strasburgo aveva sancito: a) la Convenzione CEDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Pertanto non si può risolvere il contrasto della norma italiana con una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, procedendo a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile con quella europea. Le Risoluzioni e Raccomandazioni del Comitato dei ministri si indirizzano agli Stati contraenti e non possono né vincolare la Corte Costituzionale, né dare fondamento alla tesi della diretta applicabilità delle norme CEDU ai rapporti giuridici interni; b) né il criterio del valore venale, né alcuno dei criteri mediati prescelti dal legislatore possono avere i caratteri dell'assolutezza e della definitività. La loro collocazione nel sistema e la loro compatibilità con i parametri costituzionali subiscono variazioni legate al decorso del tempo o al mutamento del contesto istituzionale e normativo, che non possono restare senza conseguenze nello scrutinio di costituzionalità della norma che li contiene; c) la normativa italiana in materia di indennità di esproprio per aree edificabili, che prevede un'indennità oscillante nella pratica tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene, non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale; d) l'indennità in esame è inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata dall'imposizione fiscale (attestandosi l'indennità, di fatto, su un valore paro circa al 20 per cento rispetto al valore di mercato del bene ablato). Il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell'interesse pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà; e) non emergono profili di incompatibilità tra l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e l'ordinamento costituzionale italiano, con particolare riferimento all'art. 42 Cost.; f) deve valutare il legislatore se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte Europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti; g) certamente non sono assimilabili singoli espropri per finalità limitate a piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale. Infatti, l'eccessivo livello della spesa per espropriazioni renderebbe impossibili o troppo onerose iniziative di questo tipo; tale effetto non deriverebbe invece da una riparazione, ancorché più consistente, per gli «espropri isolati», di cui parla la Corte di Strasburgo; h) esiste la possibilità di arrivare ad un giusto mezzo, che possa rientrare in quel «margine di apprezzamento» all'interno del quale è legittimo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dalle norme CEDU, così come interpretate dalle decisioni della stessa Corte. Quanto detto è conforme, peraltro, a quella «relatività dei valori» affermata ripetutamente dalla Corte Costituzionale italiana. Criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire, pur sempre definite dalla legge in via generale.
Il legislatore italiano è prontamente intervenuto - con maggiore perspicacia e lungimiranza rispetto a quanto richiesto dalla Corte Costituzionale - per fissare i nuovi criteri per la determinazione dell'indennità di aree edificabili riformulando i primi due commi dell'art. 37 D.P.R. 327/2001 (Testo Unico in materia di espropriazione per pubblica utilità), che adesso testualmente recitano: “L’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene. Quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del venticinque per cento.
Nei casi in cui è stato concluso l’accordo di cessione, o quando esso non è stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato ovvero perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva, l’indennità è aumentata del dieci per cento”.
Ai sensi della legge n. 244 del 2007 articolo 2, comma 90 (con riguardo al regime transitorio), le disposizioni di cui all'articolo 37, commi 1 e 2 nella nuova formulazione, così come quelle di cui all'articolo 45, comma 2, lettera a) del Testo Unico Espropri, si applicano da subito a tutti i procedimenti espropriativi in corso, salvo che la determinazione dell'indennità di espropriazione sia stata condivisa, ovvero accettata, o sia comunque divenuta irrevocabile.
Sul regime transitorio la Corte di Cassazione, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale ha ribadito che l'indennità di esproprio di aree edificabili deve pertanto essere necessariamente riconosciuta pari al valore venale integrale, sia che si ritenga applicabile anche ai giudizi in corso la legge 24 dicembre 2007 n. 244 (in questo senso Cassazione 16 luglio 2008 n. 19591 e 10 aprile 2008 n. 8321), sia nell'ipotesi che si ritenga, invece, applicabile la legge “fondamentale” del 25.6.1865 n. 2359 (Cass. Sez. un. n. 5269/2008; Cass. n. 11480/2008; Cass. 14082/2009). Quest'ultimo orientamento giurisprudenziale (maggioritario) ritiene infatti non applicabile lo jus superveniens costituito dalla L. n. 244 del 2007 art. 2, commi 89 e 90, dato che la norma intertemporale di cui al menzionato comma 90 prevede una limitata retroattività solo con riferimento “ai procedimenti espropriativi” e non anche ai “giudizi in corso”, stabilendo che una volta venuto meno a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla menzionata sentenza 348/2007, il criterio riduttivo di indennizzo di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, torna nuovamente applicabile il criterio generale dell'indennizzo pari al valore venale del bene, fissato dalla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 39 (Cass. 17 giugno 2009, n. 14082).
In merito alla nuova indennità di espropriazione è opportuno fare alcune considerazioni: 1) la scelta del legislatore di riferirsi al valore venale integrale risulta essere sicuramente apprezzabile e opportuna in quanto elimina, in radice, quelle ambiguità alla base della normativa precedente che hanno moltiplicato il contenzioso per anni (la Corte Costituzionale, peraltro, aveva ancora una volta “suggerito” al legislatore soluzioni di compromesso sicuramente deleterie); 2) la nuova normativa porta ad un effetto deflattivo del contenzioso senza, in ogni caso, appesantire oltre misura le finanze pubbliche in quanto, nell'ambito delle procedure espropriative, le aree edificabili risultano essere statisticamente assai limitate, essendo prevalentemente colpite le aree agricole; 3) anche la maggiorazione del 10% sul valore venale rientra nella scelta legislativa di favorire le cessioni volontarie, portando ad una conclusione anticipata della procedura e a forti risparmi di tempo e denaro per le amministrazioni pubbliche; 4) a tutti gli effetti la procedura espropriativa può essere evitata in diversi casi utilizzando lo strumento della compravendita, strumento di poco interesse in precedenza per l'espropriando. Infatti, secondo gli insegnamenti della Corte dei Conti, gli enti pubblici, nell'utilizzare l'istituto della compravendita invece di procedere all'espropriazione, non potevano discostarsi in ogni caso dai valori dimezzati previsti per l'esproprio dal precedente testo legislativo (dovendo altrimenti utilizzare esclusivamente la procedura espropriativa che avrebbe garantito un risparmio alla pubblica amministrazione). Questo problema, come si può ben comprendere, non esiste più, in quanto in entrambi i casi ci si riferisce al valore venale del bene.
In conclusione possiamo considerare la nuova normativa un felice punto di incontro tra le esigenze della pubblica amministrazione e quelle degli espropriati, permanendo, tuttavia, più di qualche dubbio riguardo all'ipotesi di riduzione dell'indennità del 25% per gli espropri finalizzati ad attuare interventi di riforma economico-sociale, concetto quantomai vago che porterà a notevoli problemi applicativi. Stesse perplessità rimangono per il permanere dell'art. 37, comma 7, che, ricordiamo, prevede una eventuale riduzione dell'indennità espropriativa in base a quanto dichiarato nell'ultima denuncia presentata dall'espropriato ai fini ICI, norma anche questa sicuramente in contrasto con i principi enunciati della Corte di Strasburgo, in quanto può portare in alcuni casi ad indennizzi irrisori ben lontani dal parametro del valore venale del bene.
Peraltro la più recente giurisprudenza della Cassazione ritiene che l'indennità superiore al valore ICI sarebbe erogabile solo dopo la regolarizzazione da parte del proprietario (tra le tante Cass. 30/10/09 n. 23051).
Avv. Giuseppe Spanò RETELEGALE PARMA
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mercoledì 16 dicembre 2009
La crisi colpisce soprattutto il lavoro e con esso le esigenze più elementari, fra queste innanzi tutto la casa. Pagare affitti esorbitanti o rate di mutuo insostenibili è un dramma che assilla ormai sempre più persone.
Molti, i più risoluti o forse i più disperati, decidono di trovare comunque un luogo dove abitare, che non sia però solo un riparo precario ma possibilmente una vera casa, dove vivere, da soli o con la propria famiglia e magari provare anche a costruire un futuro.
Si tratta di un'esigenza primaria e naturale, che si scontra però con gli interessi del profitto e della proprietà.
A mitigare in parte questi problemi dovrebbe pensarci l'edilizia popolare, strumento strategico di politica abitativa, ormai sempre più abbandonato a vantaggio dell'edilizia convenzionata secondo il dogma che tutto ciò che può essere fatto dai privati non si vede perchè dovrebbe essere fatto dallo Stato visto che i privati lo fanno meglio.
Ma purtroppo non è così in nessun settore.
Nel frattempo il patrimonio abitativo pubblico subisce un lento ed inesorabile degrado che sovente si conclude con la necessità di vendere ai privati o con la demolizione.
Quando però stabili abbandonati da anni vengono occupati, talvolta da chi è stufo di aspettare un'assegnazione che non arriva mai, allora improvvisamente quegli stessi alloggi dimenticati, spesso al limite dell'abitabilità e della sicurezza, tornano ad essere “un bene comune”, “un bene della collettività”, un “diritto che deve essere rispettato”, salvo tornare nel dimenticatoio appena liberati dagli occupanti.
A questo punto il Diritto (e sua madre, la Giustizia), scomparsi sino a quel momento, tornano ad occupare la scena (della tragedia o della commedia, in questi casi la contaminazione è assoluta) sotto forma di agenti di polizia municipale che su sollecitazione diretta dell'ente di gestione (gli ex Istituti Case Popolari) e con il consenso del sindaco o dell'assessore “competente”, con modi spicci se non anche rudi, sloggiano i malcapitati. Sovente compare anche personale della Questura (il più delle volte dell'ufficio Digos perchè occupare, loro lo sanno bene, è chiaramente un atto eversivo) e qualche pattuglia dei Carabinieri.
Le immagini disponibili sono sempre poche, perchè mostrare donne sole, bambini, anziani o malati, italiani o migranti, spinti fuori di casa, magari d'inverno, magari mentre stanno cenando o mentre si preparano ad andare a scuola o al lavoro, dà sempre fastidio e rischierebbe di muovere persino a pietà e ad umana solidarietà qualcuno.
Di norma però la vicenda viene confusa, chissà quanto casualmente, con gli sgomberi degli spazi occupati da squatter e antagonisti o con l'emergenza sfratti, ma si tratta di una cosa ben diversa.
Puntuale arriva la denuncia per il reato di “invasione di edifici”, art. 633 c.p. e tutto sembra rientrare nella “legalità” istituzionale.
Ma forse non è così.
Intanto l'art. 633 c.p. punisce chi invade arbitrariamente edifici altrui, che siano pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altro tipo di profitto. Il reato è punibile a querela, salvo che il fatto sia compiuto da più di cinque persone di cui almeno una palesemente armata o da più di dieci persone (cioè undici, ossia una squadra di calcio senza riserve). Sempre d'ufficio si procede se si tratta di edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. La nozione di edificio pubblico si rinviene nel Codice Civile agli artt. 822 (beni del Demanio) e 826 (beni del Patrimonio dello Stato e degli enti locali).
Le case popolari – chiamiamole così che riscalda il cuore e dà speranza – sebbene siano in proprietà di Comuni o Province, non sono beni pubblici da nessun punto di vista ed in tal senso si è espressa anche la Cassazione. Se a ciò aggiungiamo che l'ente gestore, che esercita tutte le funzioni del proprietario quale suo mandatario ex lege, oltre a non essere un ente pubblico può persino essere un privato (sottoforma di società partecipata o altro strumento giuridico previsto dall'esternalizzazione), ne segue che la querela è indispensabile e condiziona l'esercizio dell'azione penale.
A fronte quindi di un reato perseguibile a querela è francamente poco credibile che un soggetto non rivestito di pubbliche funzioni, né amministrative in senso stretto né tanto meno giudiziarie o giurisdizionali, possa ordinare un facere alla polizia giudiziaria ex art. 55 c.p.p.
Nel caso specifico poi il reato di invasione di edifici è considerato dalla prevalente giurisprudenza e dalla più avveduta dottrina (come si usa dire quando ci si riferisce alle posizioni dei giuristi sensibili alle tematiche sociali) come a condotta istantanea e non permanente. L'occupazione successiva rientra quindi fra i c.d. post- facta non punibili, rilevante solo sul piano civilistico quale violazione del “sacrosanto” diritto di proprietà, di cui in questa sede non mette conto parlare ed in merito al quale, fra i numerosi, ci si limita a segnalare un solo riferimento bibliografico: il Capitale di K. Marx.
A ciò va poi aggiunta un'ulteriore considerazione: l'invasione deve essere “arbitraria” perchè sia penalmente rilevante e l'arbitrarietà di una condotta consiste nell'essere del tutto ingiustificata, libera e una fra numerose varianti possibili tutte preferibili (in quanto più logiche o, trattandosi di norme, lecite). Ma la condotta di chi “invade” un alloggio non abitato per riparare sè e i soggetti verso cui ha un obbligo di cura e protezione (minori, anziani, malati, e perchè no animali) dai rigori dell'inverno (ma anche dal torrido caldo estivo) di certo non può ritenersi libera ma del tutto necessitata, non solo, si badi bene, dall'urgenza di sopperire ad un'esigenza fondamentale di sopravvivenza, ma anche per assolvere ad un obbligo legale espressamente imposto dall'ordinamento a chi si trovi in situazione, anche momentanea, di tutela rispetto ad un altro soggetto debole ed in sostanza svolgendo una funzione del tutto vicaria e sostitutiva a quella colposamente omessa dagli enti preposti; in Italia costituzionalmente preposti.
Viene in mente un caso famoso di invasione di edificio, compiuto circa 2010 anni fa, a danno di un ignaro pastore della Palestina, da parte di una coppia di migranti, lei incinta e ormai prossima al parto...
Buon Natale
(a tutti gli occupanti di case, ma soprattutto ai sindaci, ai questori, ai prefetti, ai ministri...)
Alessio Ariotto, RETELEGALE Torino
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DIRITTO ALLA CASA
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Eh, certo, non è una grande legge, persino l'esponente politico di altissimo livello che le ha dato il nome, l'On. Calderoli, l'ha definita una “porcata”, da cui “porcellum”, termine ormai pacificamente utilizzato da tutti per indicarla (termine coniato da Giovanni Sartori). Però è li e nessuno ne parla.
Quello che mi manda fuori di testa, infatti, è il modo deboluccio e approssimativo con il quale se ne parla a sinistra. Tutti ammettono che è uno schifo, che andrebbe cambiata, che è anti-democratica, che toglie sostanzialmente il diritto di voto alle persone, ma che in fondo c'è ed è inutile perdere troppo tempo a combatterla. Di fatto, nell'agenda politica dei leaders (mi viene da ridere) della così detta sinistra (mi spancio dalle risate), questo argomento è relegato a “varia ed eventuale”, a argomento di secondo livello, di secondo piano, di poco respiro politico.
Quello che mi sento di dire a tutti questi abusivi che si improvvisano uomini politici con accenti italioti, è che non esistono altri temi all'ordine del giorno. Questo è il tema. Bisogna parlare solo di questo fino a quando non si è vinta la battaglia per ripristinare la democrazia in questo paese nessun altra battaglia ha senso. Ed il contesto in cui questa legge nasce è un contesto di democrazia falsata, drogata, edulcorata, qualcuno dice di quasi-regime. Insomma, è inutile (o forse è utile?) ripetere che quando un signore che già controlla mezza Italia conquista anche l'altra metà inventandosi norme per non essere processato e leggi elettorali per escludere le minoranze dal parlamento, il pericolo di una dittatura è leggermente più consistente di una semplice paranoia.
E noi a guardargli i becchi della giacca, l'attaccatura dei capelli, a stigmatizzare interventi in economia e in politica estera, sui temi della giustizia e della sanità, a scrivere dossier sui suoi trascorsi e lunghissimi monologhi sui suoi presunti coinvolgimenti in procedimenti giudiziari. Attenzione. Il punto non è quello. Solo gli italiani possono liberarsi da Berlusconi ed ha ragione chi dice che il Presidente del Consiglio deve essere sconfitto in regolari elezioni e cancellato come un brutto ricordo della nostra storia da un ritorno della Politica al governo del paese. Perché quello che abbiamo visto e ci siamo sorbiti in questi anni non ha niente a che vedere con la politica.
Ma se questo è vero allora torna stringente e drammaticamente attuale il tema della democrazia e della possibilità per le persone di recarsi alle urne ed esercitare realmente il diritto di voto indirizzandolo ovunque esse vogliano ma con conseguenze reali nella composizione delle aule parlamentari italiane. Perché, per chi non se ne fosse accorto, oggi questo non avviene.
Spieghiamo, dunque, a chi fa politica o ha idea di iniziare a praticarla, che cosa stabilisce, che cosa introduce e che cosa stravolge questa legge, la n. 270 del 21 dicembre 2005.
Innanzitutto la disposizione in questione abolisce i collegi uninominali. Chi ha potuto votare con il precedente sistema si ricorderà che si poteva votare su due schede per la Camera dei Deputati e su una scheda per il Senato. Sulla seconda scheda della Camera si attribuivano i seggi in maniera proporzionale e precisamente il 25% dei seggi, con la possibilità di scegliere una lista e al Senato si procedeva a un recupero su base regionale fra i non eletti all'uninominale. Oggi le schede sono solo due.
La seconda e più terrificante modifica apportata dalla 270/05, che sostanzialmente riprende lo schema in vigore per la quota proporzionale prevista dal precedente sistema elettorale (c.d. Mattarellum), consiste nella eliminazione delle preferenze per cui l'elettore può esprimere il suo voto solo per delle liste di candidati senza la possibilità, come si verifica tuttora per le elezioni europee, regionali e comunali, d'indicare il suo candidato preferito. L'elezione dei parlamentari, dunque, la composizione del parlamento sia dal punto di vista del prestigio dei rappresentanti, della rispettabilità, del livello culturale, della preparazione giuridica, dipende solo ed esclusivamente dalle scelte e dalle graduatorie stabilite dai partiti. Qual'è la conseguenza di questa riforma è abbastanza agevole comprenderlo. O forse no, è meglio spiegarlo. Se io sono un partito con un capo che si presenta alle elezioni ed è in grado di raccogliere un buon numero di voti, allora sono nelle condizioni di cooptare uomini e donne il cui spessore politico è assolutamente irrilevante divenendo al contrario fondamentale l'aspetto della fedeltà agli impegni assunti con la candidatura. Ma se è il partito che decide chi va in parlamento e se nelle liste conviene metterci persone fidate piuttosto che persone in gamba, allora è evidente che in parlamento siederanno non, come vuole la costituzione, dei rappresentanti del popolo ma dei rappresentanti dei partiti, fedelissimi alla linea.
Anche in questo caso le conseguenze sono evidentissime ma, anche in questo caso è il caso di spiegarle meglio. Nel nostro ordinamento Costituzionale il potere legislativo appartiene al parlamento così come appartiene al parlamento il potere di conferire o revocare la fiducia all'esecutivo. Senza la fiducia, che è un voto dato a maggioranza dai due rami del parlamento, il governo cade e, se non si trova una diversa maggioranza alla Camera e al Senato, si deve restituire la parola agli elettori. Ma se tutti i parlamentari sono fedelissimi al candidato premier, è evidente che non ci sarà dialettica parlamentare e che il governo godrà di una fiducia che non gli deriva dalla bontà del suo operato ma dalla fedeltà dei suoi scagnozzi inseriti nelle liste elettorali. Non se la è meritata ma se la è comprata prima ancora di essere nominato dal Capo dello Stato.
E ancora, se i parlamentari sono uomini di fiducia del capo del governo, è evidente che non potranno che ratificare senza neanche mettere in discussione (perché nella maggior parte dei casi non ne hanno le capacità) i provvedimenti del governo ivi compresi i decreti legge che pedissequamente verranno convertiti in legge. Questo significa che la funzione legislativa non sarà più svolta dal parlamento ma dal governo.
Andiamo ad analizzare la terza grande novità della legge in esame, il c.d. “premio di maggioranza”. In pratica viene attribuito un numero minimo di 340 seggi alla Camera dei Deputati a quella coalizione che ottiene la maggioranza relativa dei voti. Al Senato, invece, il premio di maggioranza è individuato su base regionale, e garantisce alla coalizione vincente in una determinata regione almeno il 55% dei seggi ad essa assegnati.
Il “porcellum”, poi, prevede l'obbligo, nel momento esatto in cui vengono presentati i simboli elettorali del deposito da parte di ogni coalizione del proprio programma e l'indicazione del proprio capo. Pensate che stia scherzando? Andatevela a leggere. Dice esattamente così. E va bene, non ci credete allora ve la riscrivo: “Contestualmente al deposito del contrassegno di cui all'articolo 14, i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica. I partiti o i gruppi politici organizzati tra loro collegati in coalizione che si candidano a governare depositano un unico programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come unico capo della coalizione. Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall'articolo 92, secondo comma, della Costituzione.”. Pensate a quanto sono stati magnanimi questi simpaticoni. Addirittura le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica, ossia il potere di nominare il Presidente del Consiglio e i Ministri, restano “ferme”. Che bello, no? Come se in una legge ordinaria si potessero modificare i poteri della più alta carica dello Stato. Il problema è che secondo me ci hanno pure pensato e alla fine per evitare incomprensioni hanno deciso di scrivercelo perché in effetti il contenuto della norma di cui ci stiamo occupando svuota a tal punto il potere del Presidente della Repubblica da rendere anche inutile l'atto di nomina del Governo. Ricapitolando: inutile il Parlamento, inutile il Presidente della Repubblica.
E' chiaro ciò che consegue a questa norma, vero? No? Va bene allora lo spiego per benino. Nel nostro ordinamento è il corpo elettorale, cioè la gente, cioè noi, che elegge il parlamento, l'organo deputato a fare le leggi, ed è il parlamento che esprime una maggioranza. Il Presidente della Repubblica, infatti, una volta insediato il Parlamento, prima di questa “porcata”, si faceva un giretto tra i gruppi parlamentari per capire quale fosse il più gettonato tra i papabili Presidenti del Consiglio. Faceva i conti, cioè, dei voti che ogni possibile candidato avrebbe ricevuto. Quello che aveva la maggioranza veniva incaricato di formare il Governo. Una volta formato il Governo attraverso la nomina dei ministri sempre ad opera del Presidente della Repubblica su indicazione del Presidente del Consiglio incaricato, il Governo, finalmente composto, si presentava al Parlamento, cioè all'assemblea eletta dal popolo, cioè ai rappresentanti del popolo, cioè al popolo, per ottenere la fiducia, cioè l'autorizzazione a governare. Ora è.... tutto il contrario. I capi si scelgono gli scagnozzi e li infilano nelle liste elettorali. Nessuno dei parlamentari è scelto dal popolo. I parlamentari eletti hanno il dovere “morale” di sostenere il governo formato dal capo che, ovviamente, il Presidente della Repubblica incarica senza neanche farsi il giretto tra i gruppi parlamentari, svolgendo una attività meramente notarile. Il Presidente del Consiglio nomina ministri che vuole lui perché tanto nessuno si azzarderà a non votare le fiducia, e la frittata è fatta. C'è un uomo solo al comando. Un tizio, sia esso di destra o di sinistra può: scegliere i parlamentari, scegliere i ministri, fare le leggi. Uno e trino. Contemporaneamente Corpo elettorale, Parlamento e Governo. Se non è una dittatura questa... solo Ottaviano Augusto, in quanto anche pontefice massimo, ha saputo far meglio.
Proseguendo nel nostro viaggetto all'interno della legge elettorale che tanto piace ai nostri politici, ci dobbiamo occupare di due mostriciattoli mica da ridere: le “coalizioni” e le “soglie di sbarramento”. Guardate, queste due sembrano davvero questioni molto tecniche ma come è ovvio in una legge elettorale sono in realtà due questioni molto, molto politiche. Ed è importante non sottovalutarle perché sono a mio avviso il vero motivo per il quale l'opposizione (ah ah!) non fa una vera opposizione a questa legge e diventa indiscutibilmente complice di questo arretramento sostanziale del livello di democrazia nel nostro paese. Orbene, andando ad analizzare il dettaglio, la legge prevede la possibilità di apparentamento reciproco fra più liste che vengono raggruppate così in coalizioni. Sia il programma che il “capo” della forza politica laddove vi sia una coalizione, devono essere unici. Ovviamente in questi caso il capo diventa (addirittura) Capo della coalizione. La questione non è di poco conto se letta congiuntamente con l'altro aspetto, quello della c.d. “soglie di sbarramento”. Facciamo molta attenzione. Per ottenere seggi alla Camera, ogni “coalizione” deve ottenere almeno il 10% dei voti nazionali ma, per quanto concerne le liste non inserite in una coalizione la soglia minima viene ridotta al 4% e la stessa soglia viene applicata a quelle liste che siano collegate ad una coalizione che non è riuscita a superare lo sbarramento. Le liste collegate ad una coalizione che abbia superato la soglia del 10%, poi, potranno partecipare alla ripartizione dei seggi solo se superano il 2% dei voti, o se costituiscono la maggiore delle forze al di sotto di questa soglia all'interno della stessa (miglior perdente). Al Senato, invece, le soglie di sbarramento (che però devono essere superate a livello regionale) sono del 20% per le coalizioni, 3% per le liste coalizzate, 8% per le liste non coalizzate e per le liste che si sono presentate in coalizioni che non abbiano conseguito il 20%.
Adesso ponete attenzione alla circostanza che questo metodo è praticamente identico a quello della legge elettorale usata in Toscana, che prevede i medesimi sbarramenti e che non è certamente stata ideata da una mente di centro-destra.
Ora, stante la scomparsa, magari anche condivisibile visto lo scarso rendimento degli ultimi anni, di tutte quelle forze politiche che esistevano, per così dire, a sinistra del PD e vista la ricaduta sul piano economico e su quello delle visibilità di queste forze che, ed era semplice prevederlo, risultano a questo punto sepolte e dimenticate, non viene il dubbio che l'attuale opposizione abbia avuto tutto l'interesse a non contrastare questa “porcata” per sbarazzarsi con una mossa di tutti quei partitini che gli ronzavano intorno? Il fatto che quei partitini rappresentassero almeno tre milioni di persone, ovviamente non è così importante.
Ecco, io in questo vedo il dolo da parte di Veltroni prima e dei suoi piccoli predecessori dopo. Per divenire egemoni e puntare al duopolio della politica hanno lasciato a Berlusconi la possibilità di minare la struttura democratica del nostro paese. Personalmente non perdono a questa forza politica questo fatto.
Quello che penso, risparmiandovi la parte della legge che si occupa di minoranze linguistiche, è che oggi l'opposizione politica in questo paese debba avere un solo obiettivo: lavorare per costruire una alleanza politica tra i democratici, di qualunque estrazione essi siano. Questa è una precondizione per poter ricominciare a parlare dei problemi che affossano questo paese sui quali magari all'interno di questo fronte di uomini e donne che vogliono riaffermare i principi democratici, possono non essere condivisi. Questo, però, è un altro problema. Oggi siamo chiamati a fare una scelta precisa e ad impegnarci tutti quanti per risolvere un problema fondamentale del nostro paese. Quello della scomparsa della democrazia. Nessun altra questione, nessun altro appuntamento nell'agenda politica fino a quando non abbiamo risolto questo.
Personalmente mi impegnerò solo in un movimento che abbia come scopo primario quello di abrogare l'attuale legge elettorale e di restituire la parola al corpo elettorale. Altrimenti, per tutti i motivi che ho sopra spiegato, abbaiamo alla luna perché il terreno nel quale ci confrontiamo è un terreno falsato in cui, peraltro, le persone non contano niente e quando le persone non contano ci troviamo un un posto che si chiamo “regime”. Nessuno deve accettare il contraddittorio con la maggioranza su nessun altro tema sia esso economico, sociale, istituzionale. Nessun confronto fino a quando non si è parlato fino allo stremo, non si è risolto il nodo democratico e non si è ridato il potere al popolo. “LA SOVRANITA' APPARTIENE AL POPOLO, CHE LA ESERCITA NELLE FORME E NEI LIMITI DELLA COSTITUZIONE” (Carta Costituzionale, Art. 1 comma 2°).
Partigiani, sempre.
Marco Guercio, Avvocato. RETELEGALE LIVORNO
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